Vicenza: quello di Lonquich è un Bruckner di ricerca

Fra sospettose cautele e diffuse incomprensioni, è dovuto passare un secolo dalla sua morte (avvenuta nel 1896) perché la fortuna critica ed esecutiva di Anton Bruckner in Italia uscisse dalle secche di una sostanziale estraneità.

È illuminante al proposito la ricostruzione di questo percorso compiuta nel 2002 da uno dei pochi studiosi di casa nostra che si siano occupati a fondo del compositore austriaco, Sergio Martinotti. Da essa si desume che se il tempo di Mahler (da lui stesso “auto profetizzato”) è arrivato abbastanza presto, nella seconda metà del Novecento, quello di Bruckner nella penisola ha seguito ritmi molto “comodi”, specie a confronto con il culto dedicatogli dalla cultura tedesca. Culto peraltro condizionato dall’evidente strumentalizzazione ideologica di questo musicista propugnata dal nazismo.

Il primo quarto del XXI secolo, comunque, ha visto sempre più affermarsi nei programmi dei concerti di casa nostra la singolare figura dell’organista di provincia , figlio dell’Austria rurale dell’Ottocento, tutta Chiesa cattolica, duro lavoro e ossequio per le classi “superiori”: un artista che solo nella seconda metà della sua esistenza, in maniera che rimane tutto sommato misteriosa, decise di affrontare la forma regina della musica nell’Ottocento, la Sinfonia, realizzando monumentali architetture, inaudite all’epoca e difficili da mettere a fuoco anche oggi.

In questi mesi, il bicentenario della nascita è stato degnamente celebrato nei teatri del Belpaese, anche se il discorso critico non sembra aver fatto troppi passi in avanti, se non all’insegna dell’iperbole apodittica che costituisce ormai l’elemento caratterizzante dell’esegesi odierna, passato agli archivi il gusto per l’approfondimento ragionato. Sentir definire Bruckner “araldo del sublime, artigiano dell’anima, ricercatore dell’infinito” (lo ha fatto la principale emittente radiofonica pubblica), come si parlasse del protagonista dell’ennesimo capitolo della saga di Dune, o di un mistico medievale finora sconosciuto, non aiuta. Anzi, porta fuori strada. Ma tant’è.

C’è invece da essere grati a un musicista colto e profondo come Alexander Lonquich, che nella sua veste di direttore musicale dell’Orchestra del Teatro Olimpico ha congegnato per l’inaugurazione di stagione di questa formazione giovanile una celebrazione bruckneriana che potremmo definire all’insegna della ricerca e della scoperta.

Il programma proposto al Teatro Comunale di Vicenza era basato sulla Quarta Sinfonia, con la Settima una delle due più saldamente nel repertorio. Di questa composizione, colma di energia e di impulsi fantastici (didascalie “narrative” erano state ideate dallo stesso compositore, al quale si deve anche la scelta del sottotitolo “Romantica” per questa composizione) è stata però proposta la prima versione, risalente al 1874, che è apparsa nella sale da concerto solo dalla metà degli Anni Settanta, e che pur presente nella discografia, lo è in maniera a tutti gli effetti marginale.

Una simile esecuzione comporta delle rinunce per gli appassionati più avvertiti (su tutte, lo Scherzo della versione ultima della Quarta, una delle pagine bruckneriane più popolari, che nella versione iniziale è completamente diverso), ma ha altri punti di forza. Intanto, mette a fuoco quanto sia cruciale il problema delle ampie rielaborazioni di quasi tutte (ma non tutte) le Sinfonie: modifiche avvenute secondo logiche non sempre chiare, non di rado subìte dal compositore, caldamente consigliate se non addirittura imposte dal circolo dei suoi allievi-amici-collaboratori. Poi, ha il pregio di illuminare il laboratorio creativo più autentico di Bruckner, di mettere a fuoco il suo punto di partenza, di rivivere nell’ascolto il suono e la forma immaginati inizialmente dal compositore. In questo caso, solo per dare un dettaglio quantitativo, si scopre un quarto d’ora di musica in più, rispetto alla durata della Quarta secondo la pratica esecutiva corrente, che fa riferimento alla versione del 1881. In pratica, la durata standard di poco più di un’ora si dilata qui fino a quasi 80 minuti.

Rispetto alla Quarta come la conosciamo meglio, questa versione iniziale disegna se possibile paesaggi sonori ancora più ampi non solo per la durata, utilizzando la forza tellurica della grande orchestra in una gamma di “effetti” e di dettagli spesso affascinanti, dalle perorazioni maestose ai sussurri, passando attraverso una gamma espressiva nella quale è difficile individuare confini. In Bruckner il suono genera la struttura, e questo spiega le tanto spesso vituperate lungaggini e ripetizioni, funzionali a un discorso interiore che si dipana attraverso una gamma di mutazioni talvolta impercettibili, dentro a quella che sembra una ricapitolazione continua ma nei casi migliori è meditazione istintiva (e materica: quanto di più lontano dal presunto misticismo, ci pare) sul senso stesso della forma. Che poi tutto questo faccia del compositore austriaco una sorta di antesignano delle correnti minimaliste tardo novecentesche, come ha accennato Lonquich prendendo la parola prima di dare inizio al concerto, ci sembra quanto meno discutibile. Proprio alla luce del suono che Lonquich ha cercato di delineare nella sua raccolta ma vibrante interpretazione, del quale l’Orchestra del Teatro Olimpico si è fatta tramite con ammirevole concentrazione.

La formazione giovanile vicentina si è presentata con organico doverosamente allargato negli archi (12 violini primi e 10 secondi, 8 viole, 7 violoncelli e 6 contrabbassi), risultati equilibrati e compatti come necessario. Agguerriti a dovere negli ottoni (con i quattro corni costantemente in prima linea per nitida precisione, le trombe e i tromboni impeccabili nella misura così come nella sostanza timbrica), duttili e incisivi i legni, in parti che portano spesso in primo piano flauti e oboi. Il risultato è stato un’esecuzione nella quale il pensiero “tedesco” del direttore si combinava con la chiarezza “italiana” della cangiante tavolozza timbrica, sempre sostenuta dalla precisione tecnica indispensabile per dipanare l’ardua complessità di una scrittura spesso indifferente alle esigenze pratiche degli esecutori.

In apertura, a sottolineare un legame “concettuale” riconosciuto dalla critica più avvertita, anche italiana, c’è stato spazio per una pagina cameristica di Franz Schubert, l’Adagio per Trio con pianoforte pubblicato postumo come op. 148, delicati protagonisti lo stesso Lonquich al piano, Markus Däunwert al violino e Jacopo di Tonno al violoncello. Si è trattato di una sorta di raccolta introduzione, coerente con le poetiche e monumentali meditazioni sinfoniche di Bruckner che sono seguite.

Il teatro era pieno per poco più di metà della capienza. Chi c’era, ha accolto l’esecuzione con calorosi applausi.

Cesare Galla
(11 novembre 2024)

La locandina

Direttore Alexander Lonquich
Orchestra del Teatro Olimpico
Programma:
Franz Schubert
Trio in Mi bemolle maggiore per pianoforte “Notturno”, Op. 148
Anton Bruckner
Sinfonia n. 4 “Romantica”

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