Milano: una Valchiria a tutto tondo
Nominare sé stessi e dare nomi alle cose è uno dei principali atti di crescita e formazione nello sviluppo di un essere umano e della società nella quale vive. All’apertura, tormentatissima, della prima giornata della Tetralogia, Siegmund si interroga su come nominarsi e sullo stesso tema viene apostrofato dal sospettoso Hunding sino a trovare, infine, in un confronto appassionato con l’amata Sieglinde una propria identità, non attribuitasi dall’esterno, ma attraverso il proprio percorso intimo di crescita.
Si rappresenta, così, la straordinaria virata che intraprende Wagner, dopo aver sparso nel prologo tutte le premesse per lo svolgersi delle successive tre giornate.
Premesse che cercano di dare un senso a tutta la rappresentazione della vita del mondo, per cui si ha, soprattutto nell’immenso secondo atto, non solo dal punto di vista della durata di indubbia lunghezza, ma di ricchezza tematica musicale e di contenuto filosofico, politico, storico, umano e divino uniti, il più grande sforzo creativo.
Questo immenso affresco riesce a racchiudere in se stesso Tristano e Parsifal, nella coppia dei due sventurati gemelli, dove Sieglinde anticipa le trasformazioni di Kundry e Siegmund il dolore di Tristano, senza tralasciare il più profondo tormento che il potere e la sua assenza offre a chi lo vuole sottomettere e la grettezza delle piccole cose per chi non riesce ad avere una visione di insieme nello scorrere quotidiano della vita, il tutto immerso nel mito dal quale si vorrebbero risposte, impossibili da riceversi. Brilla l’anello, nella mente di Wotan, custodito dal gigante, ed è tormento immenso non possederlo, in un gioco politico di potere così simile per acribia e spregiudicatezza politica a quanto si vive nell’attuale momento storico. In un clima così cupo solo si eleva l’amore, che serpeggia sin dall’apparizione del fatuo Froh nel prologo e del rapimento di Freia, si anima nel canto appassionato di Siegmund e Sieglinde per esplodere nella frase della stessa Sieglinde col tema della redenzione d’amore legato, però, alla creazione materna e che si tornerà ad ascoltare solo al termine della giornata conclusiva del Ring, unico bagliore di speranza dopo le tragiche vicende che condurranno al rogo finale.
Simone Young ha dato una lettura di grande senso teatrale, eccellente nella resa orchestrale, nel seguire il canto e nel trovare quegli infiniti accenti e accarezzare le sfumature delle frasi per le quali Wagner ha dispensato a piene mani le sue calligrafiche annotazioni. Partitura che si potrebbe definire fiamminga, dove nelle ampie proporzioni l’infinitamente piccolo ha un ruolo preponderante, ha trovato nella musicista australiana interprete raffinata, che sa abbandonarsi nei momenti lirici e ricavare i suoni aspri o di grande baldanza se occorre, ma senza mai tralasciare il senso della misura e proporzione, con una rara capacità di visione dell’insieme (ed in tre ore e mezza di musica riuscire a non perdere mai la prospettiva verso la quale ci si sta dirigendo è dote rara, ma anche sinonimo di studio acuto e profondo). A tale lettura ha dato ottimo seguito tutto il cast vocale.
Lirico ed appassionato il Siegmund di Klaus Florian Vogt, introspettivo, teso, disperato, tutto cantato con naturalezza ed espressione; così come Sieglinde, per la voce di Elza van den Heever: trattenuta ad inizio del primo atto, è man mano cresciuta durante il corso dello stesso, sino a regalare un secondo atto di intenso lirismo e partecipazione scenica.
Camilla Nylund è una Brünnhilde che muove i suoi primi passi da esuberante ragazza istintiva e talvolta infantile per assumere poi una grandezza psicologica che nel percorso di crescita la porterà a condurre gli eventi delle successive due giornate: voce ampia e raffinata, dal timbro solare e dal fraseggio elegante, già apprezzata nelle scorse stagioni quale interprete di Lieder straussiani, ha saputo descrivere sia nel canto che nella recitazione la ricchezza che uno dei più amati personaggi wagneriani può offrire. Wotan è un dilaniato
Michael Volle: senza mai derogare dalle esigenze del canto, ha tratteggiato una divinità molto più vicina ai dolori umani di quanto il suo rango dovrebbe ascrivere e se al termine del suo addio all’amata figlia un velo di stanchezza è sceso sulla voce, nulla va tolto dall’eccellenza di fraseggio e attenzione alle dinamiche richieste da Wagner delle quali ha dato continuo risalto.
Meno a fuoco, ma pur sempre maligno e sgradevole quanto necessario, l’Hunding di Günther Groissböck che è parso più affaticato rispetto agli altri colleghi, ma di notevole presenza scenica e mai sopra le righe nei suoi passi più scabrosi.
Fricka che spesso ha scatenato le antipatie degli appassionati wagneriani, non è venuta meno al suo ruolo di voce interna di Wotan, di specchio di fronte al quale confrontarsi e mettere in chiaro quanto non si vorrebbe vedere, perdendo però il lato petulante che talvolta le si è attribuito: di ciò va dato pieno merito a Okka von der Damerau, la quale, sia dal punto di vista scenico che vocale ha tratteggiato un personaggio più politico e scaltro, sobrio e vocalmente elegante.
Ottimo il gruppo delle Valchirie, nessuna esclusa, nella loro parte ardua per esposizione e complessità vocale.
E al pari ottima l’Orchestra della Scala in tutte le sue sezioni, spesso allo scoperto in interventi singoli o in impasti timbrici complessi per ricercatezza di emissioni e figure ritmiche, con menzione particolare per gli ottoni e i fiati.
Regista, scenografi, costumisti entrati per ultimi a ricevere gli applausi sul palcoscenico, sono stati anche gli unici a ricevere sonore contestazioni dal loggione.
Si dovrebbe aprire una lunga analisi circa le potenzialità espresse e inespresse in questo immenso capolavoro. David McVicar ha dato sinora una visione teatrale nella quale la regia e le scene si pongono a fianco alla musica, cercando di lanciare segnali, richiami, sollecitazioni e lasciando alla fantasia del singolo spettatore spazio libero di immaginazione. La recitazione è raffinata, millimetrica nei gesti, senza nulla di eccessivo o di inutile, minima forse, ma corretta e necessaria. Così le scene di Hannah Postlethwaite, i costumi di Emma Kingsbury e le luci di Katy Tucker che nulla aggiungono e nulla tolgono, ma danno motivo di riflettere. Nelle prossime due giornate sarà interessante verificare dove ci condurranno.
Applausi ed ovazioni meritatissimi, invece, per Simone Young e a seguire per tutto il cast dal pubblico partecipe che ha affollato la sala del Piermarini con notevole afflusso di appassionati wagneriani d’Oltralpe, stante i vari accenti anglo germanici che si sono potuti cogliere diffusi nei due intervalli.
Emanuele Amoroso
(5 febbraio 2025)
La locandina
Direttrice | Simone Young |
Regia | David McVicar |
Scene | David Mcvicar & Hannah Postlethwaite |
Costumi | Emma Kingsbury |
Luci | David Finn |
Video e proiezioni | Katy Tucker |
Coreografia | Gareth Mole |
Maestro arti marziali/Prestazioni circensi | David Greeves |
Personaggi e interpreti: | |
Siegmund | Klaus Florian Vogt |
Hunding | Günther Groissböck |
Wotan | Michael Volle |
Sieglinde | Elza van den Heever |
Fricka | Okka von der Damerau |
Brünnhilde | Camilla Nylund |
Gerhilde | Caroline Wenborne |
Helmvige | Kathleen O’Mara |
Ortlinde | Olga Bezsmertna |
Waltraute | Stephanie Houtzeel |
Rossweisse | Eva Vogel |
Siegrune | Virginie Verrez |
Grimgerde | Eglė Wyss |
Schwertleite | Freya Apffelstaedt |
Orchestra del Teatro Alla Scala |
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