Carmine De Amicis: «Mi piace fare teatro all’anglosassone»
Abruzzese d’origine, londinese d’adozione, Carmine De Amicis è ormai artista consolidato, in un percorso poco formale ma che ne esalta le qualità, la passione per l’arte e per l’infinita gioia nello scoprire e nell’approcciarsi a tutte le possibili forme di bellezza.
Lo incontriamo alla vigilia della Prima di Die Liebe der Danae di Richard Strauss all’Opera Carlo Felice di Genova, produzione che lo vede impegnato nella doppia veste di regista collaboratore e coreografo.
- Pronto per questa nuova ed interessante produzione? Die Liebe der Danae, opera di Richard Strauss assai poco eseguita, in particolare in Italia.
Sì, pronto per questo Strauss assai meno eseguito, specialmente in Italia, ma altrettanto potente. In questo caso sono stato coinvolto quale regista collaboratore e coreografo: entusiasta per questo, poiché lo spettacolo lo abbiamo costruito tutti insieme, in uno sviluppo condiviso e avendo ognuno di noi la possibilità di portare input ed idee, condividendo il tutto con Laurence (Dale, regista) con cui collaboro da 6 anni.
- Cosa ci possiamo aspettare da questa nuova produzione?
Partiamo da presupposto che Richard Strauss non ha mai visto la prima esecuzione di questa sua opera, poichè sarebbe dovuta andare in scena a Salisburgo nel 1944, ma a causa del tentato omicidio di Hitler, tutti i teatri furono chiusi. A Strauss venne concessa, in via del tutto eccezionale, una prova generale a porte chiuse, in un teatro in sofferenza e sotto i bombardamenti della guerra. Partendo da qui, abbiamo immaginato Strauss che, assistendo alla prova generale, collega i suoi personaggi e i temi dell’opera a mondo a lui contemporaneo. Mentre intorno il mondo intero crolla, dentro, tra le macerie, l’arte continua… nella speranza di “rivedersi tutti in un mondo migliore”, come disse Strauss stesso congedandosi dai musicisti in buca il giorno della generale: tutto questo suona ancora valido nel 2025, sfortunatamente.
- Quali sono stati gli stimoli che la partitura le ha dato?
Tutto è partito da questo singolare spartito: si nota come il compositore faccia scelte diverse, volendo quasi riportarci ad un tempo che non c’è più, attraverso alcuni passaggi musicali che abbiamo voluto esaltare, facendo emergere tutta la nostalgia che trasuda da ciò. Penso alle grandi scene danzanti, i valzer intessuti nella partitura, quasi a sorpresa, che esplodono con irruenza nell’intreccio narrativo. È stato un processo davvero molto interessante, intorno ai temi centrali dell’opera “l’amore ed il denaro” c’è un intreccio continuo tra mondo reale e fantastico, tra narrazione e astrazione, dinamismo e staticità. Quest’opera ci ha incoraggiati ad assecondare le drastiche sterzate di cui Strauss è capace, evidenziando ogni momento musicale tra il buffo e la contemplazione filosofica sull’umanità.
- Cosa troviamo di suo in questo spettacolo?
La premessa che voglio fare è ringraziare il regista Laurence Dale per l’invito ed il coinvolgimento. Quando trovi persone come lui lavori bene, sai che c’è squadra, sai che c’è lavoro di ricerca e analisi dietro. Siamo partiti dal porci alcune domande come, ad esempio, chiederci che cosa fanno gli essere umani quando tutto è perduto e come lo vogliamo evidenziare. Ho deciso di contribuire alla regia inserendo scene danzanti, fantasmi di epoche passate nelle quali i personaggi possono indugiare nostalgicamente. Mi sono divertito ad evidenziare le bizzarre danze in 5 tempi, difficilissime da contare, creando un legame filologicamente valido tra i personaggi mitologici e i danzatori che nel 1944 si trovavano davvero a teatro.
Io credo fortemente nell’uso della danza su un doppio percorso, quello drammaturgico e quello più astratto. In questa regia sono molto felice di aver potuto utilizzare entrambi: le danze con un valore drammaturgico con le quali possiamo identificare un preciso periodo storico, una società con i suoi costumi; vi è poi l’uso più astratto, come ad esempio l’uso dell’oro, tra i temi centrali del dramma, con le figure allegoriche, personaggi che rappresentano l’oro stesso nelle sue diverse forme e qualità, siano esse solide o liquide. Nell’opera troviamo quindi i danzatori veri, gli esseri umani che cercano di salvare il salvabile della loro casa artistica, questo grande teatro in rovina, bombardato dalla guerra, mentre accanto a loro troviamo le allegoriche figure del giallo metallo, in un dialogo costante tra drammaturgia e allegoria. Il mio approccio è stato quello di collegare questi mondi, farli dialogare in un libretto assai complesso.
- Viene spontaneo chiedersi come arriva qui: come è stato il suo percorso?
Il mio è un percorso particolare, meno formale: partiamo dalla mia laurea in traduzione, che è stato un passaggio importante dovuto al mio amore senza fine per i versi e, in particolare, per Shakespeare. Da sempre amo la bellezza dei versi perché in essi percepisco moltissime informazioni sul personaggio. Il ritmo dei versi, le scelte lessicali e stilistiche connotano i personaggi ancor prima di essere incarnati dal performer (sia esso un attore, danzatore o cantante). Ed è nel ritmo che il verso si avvicina, si fonde, con la mia pratica del movimento. Il ritmo per collega corpo e parola e si traduce in quella che definiamo “danza”, ma i preferisco chiamare “movement practice”, perché nel mondo anglosassone e nelle mie masterclass la applico ad una ampia gamma di artisti performativi, non solo danzatori. Ecco quindi che, nel mio percorso parallelo di danza e musica, c’è stata l’unione ideale tra l’amore per i versi e per il ritmo che ne consegue, oltre che la passione per la danza dove il ritmo è essenza. Arrivo così all’opera, punto di sfogo dove i versi, musica e corpo contribuiscono alla narrazione attraverso quella che chiamo “coreografia invisibile”, fatta di micro scelte pertinenti per un personaggio alla volta e per lui/lei soltanto.
Mi piace fare teatro all’anglosassone, ma questo è vero anche per la commedia dell’arte, dove si defiiscono i personaggi a partire dalla loro fisicità, dal rapporto che hanno con gli altri corpi in scena e con lo spazi stesso. Ovviamente tutto il lavoro, ritengo fondamentale che vada fatto in sinergia, come sovente, per me, avviene: lavorare in team creativi in cui tutto è funzionale, dalle scene, ai costumi, ai movimenti stessi. Fare danza come riempitivo, come colmatore di scene, non mi piace, poiché deve avere una pertinenza drammaturgica e filologica: ecco perché si lavora al progetto creativo dall’inizio alla fine. Ed ecco perché ho voluto continuare nello studio prendendo una laurea come coreografo e come regista d’opera.
- Regista e coreografo: dove sta la linea?
Per quello che riguarda il mio percorso, non vedo la linea, non vedo una vera divisione. Il corpo è carico di un potere narrativo anche involontario, lavorando con i diversi corpi in scena si crea una mini drammaturgia e, di conseguenza, una scena… a questo punto diventa difficile dire dove sta la linea, no? I tre linguaggi dell’opera lirica, la musica, il testo ed il corpo guidano il mio lavoro ed ispirano in modo diverso. Alcuni aspetti del personaggio li estrapolo direttamente dai versi. Pensiamo a Boito per esempio, che nella scelta del lessico e del ritmo già mi va a dire e definire chi sono i personaggi. Geniale! E la musica? Sta tutto negli accordi, là trovo le informazioni che vanno al di là della parola, poiché la musica espande il personaggio in maniera verticale. Essa non solo aggiunge ma a volte sconfessa ciò che la parola o il gesto non esprimono.
- Chiudiamo con una domanda che non vuole essere banale o scontata: il futuro?
Futuro per la prossima stagione o tra dieci anni? Credo che la risposta possa essere molto diversa! Mi piacerebbe concentrare le mie energie ed esprimere le mie potenzialità nella regia-coreografia d’opera, per la grande ammirazione che ho per la musica e per tutto quanto raccontato e detto finora. Mi piacerebbe quindi curare produzioni operistiche dove la mia pratica artistica possa essere più autentica possibile. Da circa 10 anni curo anche degli spettacoli immersivi a Londra con la mia compagnia Edifice e mi piacerebbe continuare con questo e con le intromissioni nella cinematografia con alcuni cortometraggi.
Leonardo Crosetti
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