La Zenobia riscoperta fa risplendere Palmira al Teatro Malibran di Venezia

Bisogna essere riconoscenti allo sconosciuto autore dell’unico manoscritto esistente dell’opera barocca Zenobia, regina de’ Palmireni, conservato alla Library of Congress di Washington. Si tratta, come suol dirsi, di una “copia d’uso” del primo lavoro melodrammatico di Tomaso Albinoni, cioè della partitura utilizzata per un’occasione esecutiva. Non sappiamo se si tratti della prima assoluta, avvenuta al teatro di San Giovanni e Paolo durante il Carnevale 1694, debutto operistico dell’autore allora ventitreenne, o di una replica avvenuta in seguito. Quello che appare certo – almeno secondo uno studioso autorevole della musica veneziana di quell’epoca come Michael Talbot – è che la partitura disponibile è “pesantemente tagliata”. Bisogna essergli riconoscenti, perché in questa veste l’opera diventa una sorta di sintesi che dura meno di due ore (ben diversamente dalle consuetudini dell’epoca), ma conserva intatto non solo il senso drammatico della vicenda ma anche e soprattutto il fascino dell’invenzione musicale di Albinoni, la ricchezza delle sue soluzioni, la seduzione delle melodie e dei colori. E soprattutto afferma con evidenza incontrovertibile che a 23 anni il musicista veneziano destinato ad essere stimato anche da Bach aveva già ben appuntite quasi tutte le frecce al suo arco, era già un grande.

Lo si può ben dire ora, che la Zenobia è stata riesumata e presentata al Malibran di Venezia in prima rappresentazione nei tempi moderni. E in questo caso sappiamo benissimo chi ringraziare per questo momento di alta cultura musicale: il progetto di ricerca “OperaStudio” del conservatorio Benedetto Marcello di Venezia, curato da Franco Rossi (fra l’altro, uno specialista di Albinoni per averne pubblicato il catalogo tematico delle composizioni all’inizio degli anni Duemila) e il direttore-musicologo vicentino Francesco Erle, che ha guidato l’esecuzione e prima di essa ha lavorato a fondo sulla trascrizione del manoscritto oltre che sulla preparazione degli interpreti, tutti o quasi, strumentisti e cantanti, legati alla scuola musicale veneziana o veneta.

Che poi la Fenice abbia accolto questa produzione nel suo cartellone operistico è solo una dimostrazione in più del momento di costruttiva efficacia sinergica che la musica sta vivendo a Venezia, dimostrata anche dal patrocinio dell’Università di Ca’ Foscari.

L’idea-guida dello spettacolo, nella lettura del regista Francesco Bellotto, è che la Zenobia abbia costituito al suo apparire nel 1694 una sorta di tributo operistico alla figura del doge-condottiero Francesco Morosini, l’eroico resistente di Candia, il conquistatore della Morea, di Patrasso e di Atene, morto il 6 gennaio di quell’anno. Il dramma di Antonio Marchi musicato da Albinoni mette a confronto l’imperatore romano Aureliano con l’orgogliosa regina di Palmira, Zenobia, che sfida la morte per non piegarsi al conquistatore della città, peraltro perdutamente innamorato di lei, e ottiene salva la vita e restituito il regno grazie alla sua magnanimità. Questa storia era nata per i palcoscenici teatrali nel corso del Seicento (un dramma di Calderon è del 1625, poi arrivarono quelli in francese di D’Aubignac – 1647 – e Magnon – 1660) e probabilmente il libretto di Marchi ne è la prima versione di ambito operistico. Quasi un secolo dopo, sempre a Venezia, il plot sarebbe stato ripreso da Gaetano Sertor per un’opera di Pasquale Anfossi (1789), a sua volta modello per Felice Romani quando approntò il libretto di Aureliano in Palmira per l’opera di Gioachino Rossini, in scena alla Scala nel 1813.

Per tornare alla Zenobia di Albinoni, in realtà la protagonista è ovviamente lei, la regina di Palmira, che anche se vinta alla fine trionfa sul vincitore. Fra l’altro, quando nel 1717 l’opera fu ripresa al teatro di Sant’Angelo (fatto eccezionale) e il libretto ristampato, fu intitolato proprio Il vinto trionfante del vincitore. L’imperatore Aureliano è invece personaggio ondivago e tutt’altro che coerente (ma in quanto tale molto melodrammatico): all’inizio dell’opera le sue pene d’amore sono causate dalla seducente palmirena Filidea, ma durano per il tempo necessario che il padre di lei, Ormonte, tradisca i suoi concittadini e permetta ai romani di conquistare la città. Poi il condottiero resta sedotto da Zenobia, che è però inflessibile nel respingerlo, anche aspramente, tanto da indurlo a ipotizzare una sanguinosa vendetta. Si ricrederà solo quando vedrà la regina respingere sdegnosamente le proposte del traditore Ormonte (che lui invece aveva accettato). Solo allora scatterà il lieto fine di prammatica.

Che in un simile personaggio gli autori volessero adombrare (e il pubblico di allora vedesse) la figura del popolarissimo doge-condottiero in un insolito tributo post-mortem è un’ipotesi interessante ma non comprovata. Quel che conta, però, è che lo spettacolo di Bellotto funziona benissimo, grazie anche all’apporto dello scenografo Massimo Cecchetto e del costumista Carlos Tieppo. Si tratta di una sorta di asciutta e intelligente “mise en espace” che vede i cantanti agire quasi esclusivamente sui praticabili realizzati davanti e intorno alla buca dell’orchestra, riservata peraltro solo al direttore Erle e a una parte degli strumenti di continuo. Il grosso degli strumentisti è schierato sul palcoscenico, e tutti sono abbigliati alla maniera dei senatori veneziani del ‘600, mentre il gioco illuminotecnico e delle proiezioni intorno a loro (il light designer è Vilmo Furlan) accenna efficacemente alle mura di Palmira, o ai suoi giardini, o alla reggia. I costumi, di grande fascino pittorico, completano il quadro di un fastoso immaginario barocco che vede il personaggio di Aureliano deporre la berretta dogale all’inizio, appena comparso in scena, e indossarla nuovamente alla fine.

Se l’allestimento rispetta e sottolinea l’immagine di un dramma per musica nato alla fine del Seicento, quella sua atmosfera da “palazzo incantato” che è metafora spesso impiegata nei decenni del melodramma nascente, non da meno è l’esecuzione musicale, concertata da Erle con la passione, l’energia e la fantasia che fanno di questo interprete uno specialista autentico. Un musicista, cioè, che commisura il rigore filologico con la libertà espressiva che era elemento fondante di quel modo di fare musica e teatro.

In questa logica va considerata la sua scelta di affiancare al rigoglio dell’invenzione timbrica e melodica di Albinoni – qui a una prima prova di prodigiosa maturità, nella quale le alchimie del belcanto si combinano con l’eleganza poetica dei colori strumentali in un unicum di superba “venezianità” – una specifica ricerca sulla musica “turchesca”. Scelta che discende dalla natura del dramma non meno che dal suo contesto e dal suo supposto rapporto con la figura di Morosini. Il risultato è che il già ricco florilegio strumentale del basso continuo si arricchisce, quando in scena sono Zenobia e i suoi concittadini, delle esotiche inflessioni assicurate da ritmi arabeggianti e da colori di strumenti etnici come il qanun (con le sue corde pizzicate), il ney (a fiato), l’oud (famiglia dei liuti). È il “maraviglioso” barocco che prende forma musicale pensando a un contesto multietnico e aperto come quello della civiltà della Serenissima, dove le guerre con i turchi non impedivano i commerci e un fervido dialogo culturale. Difficile dire se così fu eseguita la Zenobia nel 1694. Facile riconoscere il fascino di una soluzione che ha tocchi di stupefacente modernità e una sensibilità barocca implicita nell’esaltazione del valore materico del suono, della melodia, del colore. Tutti elementi che del resto Albinoni dimostra di maneggiare benissimo, se si pensa alla sequela di Arie con strumenti accompagnati di ogni tipo, con dialoghi fra voce e strumento di fascino assoluto. Per non parlare della prodigiosa Aria di Aureliano, “Notte di te più cara”, con un basso ostinato che esalta la tenerezza della morbida linea vocale.

Dopo un inizio un po’ contratto, che ha sacrificato qualcosa della brillantezza della Sinfonia avanti l’opera, l’orchestra barocca del conservatorio Benedetto Marcello si è fatta apprezzare per musicalità, duttilità espressiva e accortezza stilistica, sollecitata da Erle a un ampio ventaglio di soluzioni dinamiche e a grande incisività ritmica.

Decisamente notevole la compagnia di canto, a dimostrare quanto le scuole venete di musica antica siano state decisive nell’analizzare e concretizzare tecnicamente al meglio la prassi esecutiva senza la quale tanta musica barocca resterebbe lettera morta. Jimin Oh è stata una Zenobia fiera e appassionata, dalla coloratura riccamente espressiva. Altrettanto si può dire per il contraltista Danilo Pastore (Aureliano) e il sopranista Federico Fiorio (Lidio) interpreti nei quali la pienezza timbrica è completata dalla sapienza interpretativa distribuita sia nel cantabile che nella coloratura, sempre impeccabile. Da citare comunque tutto il resto del cast. Si sono fatti valere in scena, precisi anche nella gestualità ben studiata, il tenore Alfonso Zambuto, Ormonte, che ha risolto al meglio anche la scena di (finta) pazzia di cui è protagonista, “topos” caratteristico dell’opera secentesca; il soprano Naoka Ohbayashi, seducente e frivola Filidea dal timbro chiaro e aggraziato; il soprano Giuseppina Perna, nitida linea di canto nella parte di Cleonte, attendente dell’imperatore; il basso Luca Scapin, che ha dato rilievo alla parte del servo saggio Liso, e infine il basso Francisco Bois, voce del messo.

Dopo due repliche per le scuole, alla rappresentazione in cartellone per “Opera Giovani” al Malibran il pubblico era folto e le accoglienze sono state entusiastiche.

Cesare Galla

(24 febbraio 2018)

La locandina

Direttore Francesco Erle
Regia Francesco Bellotto
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Light Designer Vilmo Furian
Personaggi e interpreti:
Zenobia Jimin Oh
Aureliano Danilo Pastore
Ormonte Alfonso Zambuto
Filidea Naoka Ohbayashi
Cleonte Giuseppina Perna
Lidio Federico Fiorio
Silvio Dima Bakri
Liso Luca Scapin
Voce di soldato e messo Francisco Bois
Orchestra barocca del Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia
nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice
in collaborazione con Conservatorio Benedetto Marcello di Venezia

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