L’anticonformismo di Antonii Baryshevskyi, tra tecnica e cuore alla Fazioli Hall di Sacile

Il divificio in cui quasi tutti i pianisti entrano per assimilazione o per contrasto (gli antidivi sono divi due volte) non ha ancora convocato il ventinovenne Antonii Baryshevskyi, apparso alla Fazioli Hall di Sacile il 16 marzo. E se l’ha fatto non ha mai ricevuto risposta da questo pianista ucraino di nascita e di residenza, che pare non aver la minima intenzione di lasciare Kiev per trasferirsi nella piattaforma mitteleuropa spesso necessaria al decollo delle carriere. Giusto per inquadrare chi avremo di fronte, valga come esempio il suo secondo e ultimo lavoro discografico, l’integrale delle Sonate per pianoforte di Galina Ustvolskaja, un manifesto di assoluta indifferenza alle logiche di mercato. Forse, tra qualche anno, questo disco della tedesca C-Avi records assumerà la stessa importanza delle incisioni sinfoniche di Suk offerte da Kirill Petrenko in tempi non sospetti. A Sacile, nel miracoloso microclima della Fazioli Concert Hall – dove chi lavora nella fabbrica di pianoforti diventa squisito ospite di un pubblico rispettoso, da clonare e replicare ovunque – Baryshevskyi ha proposto un programma che sfida le leggi del buon senso: nell’ordine, la 111 di Beethoven, ultima e testamentaria Sonata di Beethoven, seguita da un tuffo negli abissi di Skrjabin (5 Préludes op.74 e la visionaria Vers la flamme) e poi, ancora, i 3 Études op.18 di Bartók, Quinto e Ottavo Studio di Ligeti, per chiudere con Tango, Ragtime e Trois Mouvements de “Pétrouchka” di Stravinskij. Rassicuriamo subito sulla salute del nostro: alla fine di questa maratona cielo-inferno e inferno-terra le energie gli erano sufficienti per offrire un bis debussiano. L’esperienza d’ascolto di Baryshevskyi – che chi scrive ha esperito in una grande sala come il Manzoni di Bologna, per Musica Insieme, in un recital privato a Kiev e nella sala del Bronzino al Quirinale – è un enigma ancora irrisolto. È evidente che il suo pianismo, informato sulla grande scuola del suo paese, poggia su basi tecniche ineccepibili. Ma questo non basterebbe a fare di Baryshevskyi, figlio di una psicologa e di un uomo di chiesa ortodosso, l’oggetto del nostro interesse. Vederlo è precipitare di colpo in un’esperienza lontana ed estranea all’industria concertistica, che vuole l’interprete mediatore ingombrante e imprescindibile del messaggio. Baryshevskyi è invece dentro il messaggio. Significa che quando lo ascoltiamo lo vediamo dentro la musica, prima ancora che al pianoforte. In questo, il suo pianismo è un rituale di transustanziazione cui è impossibile sottrarsi. Baryshevskyi suona musica che ha veramente vissuto. Più che interpretarla, la rivive. E noi assistiamo al reincarnarsi di quella sostanza che è anzitutto vita, prima che studio e tecnica. In questo contribuisce ovviamente il gusto narrativo della scuola russa, quel “far venire da lontano”, il gesto dell’evocare, la reminiscenza, cui s’aggiungono una gestione impeccabile dei pesi della mano, il senso innato delle proporzioni, la ferrea logica interna dentro la singola battuta, nella frase e nella forma complessiva, la creazione non artificiosa di suspance (come nell’Arietta di Beethoven). Baryshevskyi non sarà mai un interprete postmoderno, che cerca l’effetto stupefacente, che fa precedere l’ego artistico al messaggio sonoro, che crea l’evento nell’evento. Ma questa sua onestà nel porsi, l’apparente solipsismo del suo carattere, lo ripagheranno con ricompense maggiori. Verrà il tempo di Baryshevskyi. E forse quel tempo è già arrivato.

Luca Baccolini
(16 marzo 2018)

La locandina

Pianoforte Antonii Baryshevskyi
Programma:
Ludwig Van Beethoven
Sonata n. 32 in do minore, op. 111
Aleksandr Skrjabin
5 Préludes op. 74 (1914)
Vers la flamme, op. 72
Béla Bartók
3 Études op. 18, Sz. 72
György Ligeti
Étude n. 5: Arc-en-ciel. Andante con eleganza
Étude n. 8: Fém
Igor Stravinskij
Tango (1940)
Ragtime (1918)
Trois Mouvements de “Pétrouchka”

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