Milano: Don Pasquale tra Dolce Vita e complesso di Edipo
Era il 1957 quando la curiosità di Gianandrea Gavazzeni, grazie al talento drammatico di Maria Callas e allo straordinario strumento di Giulietta Simionato, dava avvio a quella colta Donizetti Renaissance che ancora non ha restituito il giusto valore al genio bergamasco.
Si ritorna a quei mitici anni ‘50, ma a Roma, con il Don Pasquale in scena alla Scala fino al 4 maggio, con la regia di Davide Livermore che ambienta l’opera nella Dolce Vita della Capitale. Un omaggio al cinema italiano la cui estetica fa da sfondo al capolavoro donizettiano innervandolo di una compiacente brillantezza. Il contesto di riferimento è la Roma pulsante e viva di quegli anni, in cui, dimenticate le atrocità della seconda guerra mondiale, la gente aveva voglia di vivere e di godersi la bellezza e i divertimenti di una delle città più belle del mondo.
Davide Livermore propone raffinate idee registiche, che hanno il merito di attualizzare una trama non troppo vicina al sentire contemporaneo. L’azione è fluida e incalzante e in questo senso la regia è funzionale a un titolo più imperniato sulla “vicenda” che sullo spessore psicologico dei personaggi. C’è un buon equilibrio con i toni più tragici di cui la partitura è intrisa, che si esprimono in un uso marcato di colori freddi e cupi, nel susseguirsi di nuvole sullo sfondo e di una luna enorme sulla scena finale. Soluzioni, queste ultime, a volte stridenti con il registro comico concentrato nella prima parte dell’opera.
Il regista cita sé stesso con le tinte e i palazzi già visti nel suo Tamerlano della scorsa stagione scaligera (come il nastro-moviola). Anche la Lancia Aurelia su cui Norina canta le sue arie ricorda la Cadillac della Carmen cubana del 2015. Da Cinecittà, munita di centurioni e schiave egizie, si passa alla stazione Termini con le cabine telefoniche e i lastroni di marmo della Roma fascista. Molto riuscita la sfilata nel finale primo del primo atto, quando Malatesta organizza l’imbroglio con Norina. Sembrava di vedere uscire Micol Fontana dalla quinta a dare istruzioni alle sue mannequin. Meno felice il finale sull’Appia con prostitute e calcinculo (più anni 80 che’50): le scenografie di Giò Forma e Livermore sono belle da vedere, ma più funzionali a un Grand-opéra che a un’opera da salotto, dove la vicenda si consuma tra le mura domestiche o, appunto, nel giardino.
Più di ogni altra citazione sono i meravigliosi costumi di Gianluca Falaschi a catapultarci nell’atmosfera della Dolce Vita romana. Un tripudio di stole, vite strette, fianchi larghi e seni a punta ci fanno sentire come quando da bambini trovavamo nei bauli di famiglia le foto delle nostre nonne. Per i maschi, pantaloni larghi bretelle e sigarette à gogò, ché in quegli anni se non fumavi non eri cool. Era l’epoca delle maggiorate in cui Anna Magnani, Silvana Pampanini, Sophia Loren e Gina Lollobrigida si contendevano lo scettro. Grazie a Falaschi abbiamo rivissuto il sogno.
Don Pasquale è bamboccione grande, mai affrancato dall’ingerenza della madre che anche da morta lo controlla guardinga in ogni sua azione, raffigurata in un bel video-ritratto evocatore dell’opera di Roberto Cuoghi (Senza Titolo, 2009, Collezione Iannaccone). Poi c’è l’intrigante dottore Malatesta, che manovra i personaggi e plasma la vicenda a suo piacimento, una giovane servetta in cerca di fortuna e un tenore un po’ spaesato che ama la giovane. Si celebra un matrimonio simulato per consentire l’unione dei due amanti, secondo quella consuetudine di portare il diritto in scena come riflesso del costume sociale, tanto cara agli autori del sette e primo ottocento (cfr., sul punto, Filippo Annunziata, Prendi l’anel ti dono).
Come nella prima del 1843 al Théatre Italien dove cantavano la Grisi, Mario e Lablache, anche ieri sera il successo della serata è stato suggellato da un cast vocale di rango. Ambrogio Maestri è un divertente Don Pasquale che calibra con esperienza ogni sfaccettatura del personaggio come la cattiveria, la ridicolaggine, l’entusiasmo. Rosa Feola ha tutta la grinta per gestire il ruolo. Civetteria, malizia e attitudine da soubrette si alternano con disinvoltura. Convince anche l’Ernesto di René Barbera, dotato di voce squillante ed elastica. Mattia Olivieri è perfetto per il ruolo di Malatesta. La vocalità scura si accompagna a doti attoriali di primordine, particolarmente calzanti in questa richiedente produzione, che molto si sviluppa sui movimenti e sull’attorialità dei personaggi.
Dall’orchestra diretta da Riccardo Chailly emerge un suono granitico, trasparente e una buona coesione tra le sezioni che sono omogenee per volumi e colori. Talvolta si ha l’impressione che l’orchestra passi in secondo piano rispetto all’azione scenica, non perché non ci sia suono di qualità, ma perché l’attenzione è tutta concentrata sui repentini cambi di scena talvolta poco in sintonia con la partitura. Grande attenzione alla cura dei cantanti, che vengono letteralmente seguiti nota per nota dal direttore.
A fine serata, copiosi applausi per tutto il cast. Un giusto omaggio a una produzione di qualità nella speranza di vedere più spesso anche altri titoli donizettiani alla Scala.
Pietro Gandetto
(Milano, 3 aprile 2018)
La locandina
Direttore |
Riccardo Chailly |
Regia | Davide Livermore |
Scene | Davide Livermore e Giò Forma |
Costumi | Gianluca Falaschi |
Luci | Nicolas Bovey |
Video | Video design D-wok |
Don Pasquale | Ambrogio Maestri |
Norina | Rosa Feola |
Ernesto | René Barbera |
Malatesta | Mattia Olivieri |
Un Notaro | Andrea Porta |
Orchestra e coro del Teatro Alla Scala | |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
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