La Guerra del Regio: il futuro (Parte 3 di 3)

Impossibile ignorare la questione: le dimissioni anticipate di Walter Vergnano dal ruolo di Sovrintendente del Teatro Regio di Torino, dimissioni che hanno causato a catena quelle di Noseda e Fournier-Facio, sono finite su tutti i giornali. Il fatto è contorto e tracciare un filo è quanto mai complesso, ma grazie alle dichiarazioni del Sindaco Chiara Appendino pubblicate su La Stampa il 4 maggio, possiamo tracciare uno schema con questi tre articoli, concepiti unitariamente e dedicati rispettivamente alle dimissioni di Vergnano, alla nomina di Graziosi e infine al futuro musicale del Regio alla luce delle dichiarazioni da parte della classe politica torinese.

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Parliamo di musica?

“Parliamo di musica?” Così titola la lettera aperta degli orchestrali del Regio al Sindaco Appendino, che ricordo essere anche la Presidente del Teatro. E a ragione: in tutte queste forsennate discussioni, quasi mai si è parlato davvero di musica, di visione artistica, di reali osservazioni sui meriti artistici non solo di di Noseda e di Fournier-Facio, ma anche di orchestra, coro, maestranze e staff del Teatro, che hanno realmente portato il Regio di Torino ad un livello di eccellenza, testimoniato dal successo delle tournée e dalle incisioni per prestigiose etichette discografiche come la Deutsche Grammophon, Foné, Warner, Chandos ed altre ancora. Non solo, si sono pronunciate anche affermazioni assolutamente faziose che stupisce non aver visto prontamente smentite da quei critici e intellettuali che a gran voce chiedevano la permanenza di Noseda nel Teatro. Resta all’Editoriale dei Lettori de La Stampa, con la lettera di Stefano Crevacore, il porre finalmente l’attenzione sulla questione.

Quanto sostenuto dall’Assessore alla Cultura Francesca Leon, dal consigliere Massimo Giovara e dal baritono di area Cinque Stelle Pierluigi Dilengite (riportato qui da Repubblica) è il fulcro della questione.

«Quello che è uscito in queste settimane dimostra che i vent’anni passati non hanno generato quel salto di qualità che per molto tempo si è decantato», afferma secondo non dichiarati criteri Leon. Posto che si fa una gran confusione di campi (biglietteria,  gestione amministrativa, qualità artistica), è ben facile smontare quest’affermazione, a dimostrazione della decisa faziosità dell’Assessore. Quella della biglietteria è una questione complessa. Citata da Leon e Giovara, torna anche nelle dichiarazioni di Appendino: « “Negli ultimi anni gli incassi dei biglietti sono scesi”, a fronte di un costo per gli artisti invece elevato. Il margine è quindi negativo: nel 2016, ad esempio, i costi sono stati 7,2 milioni e i ricavi in biglietteria 6,64 milioni.”», afferma nell’articolo del 4 maggio, «A Graziosi, ora, il compito di “riuscire a tenere alti gli standard qualitativi, attraverso una programmazione culturale all’altezza dei livelli raggiunti in questi anni, ma in un’ottica di gestione finanziaria più oculata”». Stupisce però che non vengano mai citati i dati sulla presunta diminuzione degli incassi dai biglietti. Li cita invece Vergnano: «Su questo sono in corso delle verifiche, non ci sono ancora dati precisi […], ma ho quelli degli scorsi anni: nel 2014 il Regio ha incassato 6 milioni e 530 mila, nel 2015 sono stati 6 milioni 635 mila e nel 2016, 6 milioni 643 mila». Un percorso che non solo è stabile, ma addirittura ascendente, con un aumento di 100 mila euro solo tra 2014 e 2015. Salvo un drastico calo nel 2017, un minimo di fluttuazione in un trend positivo mi sembra assolutamente accettabile e parte dell’ordinaria amministrazione. Ci si aspetta invece che Graziosi riesca ad aumentare ulteriormente le vendite: questo nonostante la sua esperienza alla Baltimora Opera Company  abbia visto problemi ingenti proprio nella parte di sbigliettamento. E per di più su un titolo forte come Aida.

«Bisogna valorizzare il repertorio tradizionale che è uno dei fiori all’occhiello della classica in Italia – spiega Giovara – La riduzione dei biglietti venduti negli ultimi anni [secondo quali dati?] va letta anche perché è stata fatta una programmazione troppo di nicchia che non ha incontrato il favore del grande pubblico. Noi vogliamo che i torinesi e non solo loro tornino al Regio per la Traviata, il Don Giovanni in allestimenti tradizionali». Forse a Giovara è sfuggito il Don Giovanni che dal 27 giugno al 7 luglio occuperà le scene del Teatro. Anche la retorica è veramente misera: non bastano i grandi repertori, non bastano i grandi nomi per attirare pubblico, in Italia come all’estero, serve una strategia adeguata che porti l’opera al pubblico ed il pubblico all’opera. Quando si parla di «portare al Regio almeno il 2 per cento dei turisti che vengono a Torino», secondo non si sa bene quale tecnica, bisogna comprendere che non è solo con il repertorio tradizionale (che per altro non manca affatto al Regio) che si aumenta l’interesse per il Teatro. Come dimostra Graziosi a Baltimora, anche Aida può fare flop.

Si toccano poi, sempre nel citato articolo di Repubblica, altri argomenti puramente retorici. Diminuire i nuovi allestimenti può essere sensato in un’ottica di restrizioni economiche, nonostante non sia senza controindicazioni, ma aumentare le repliche comporta in ogni caso nuovi costi e non è di per sé sinonimo di maggiore affluenza. Ricompare anche lo spettro delle dirette nei cinema e in streaming, insieme a quello del fundraising, antiche ricette che, se non contestualizzate in un progetto reale, sono e rimangono quasi sempre pura retorica. Tanto più quando Giovara afferma che diretta live «non vuol dire far proiettare a Palermo gli spettacoli del Regio. Bisogna valorizzare le produzioni proponendo ai broadcaster stranieri, penso a mercati come il Giappone, l’Australia e le Americhe». Ma per poter raggiungere quei mercati è fondamentale il crearsi un’immagine internazionale che riesca ad imporsi su teatri come il Metropolitan e la Scala, giusto per citare due paladini dell’opera lirica nell’immaginario globale. Come realizzare questo progetto se parallelamente si pensa di ridurre le tournée (allora a che internazionalizzazione si riferisce Graziosi nella sua intervista per La Stampa?) e, assurdamente, rinunciare alla figura di un Direttore Musicale?

«Molti teatri hanno un “primo direttore ospite” di grandissima qualità che dà la sua impronta all’orchestra e poi dirige un paio di opere e un paio di concerti l’anno.», recita Giovara, che ben più dell’Assessore Leon si esprime in merito alla futura gestione. L’ignoranza (o la faziosità) dietro questa affermazione è grande: pensare che basti una manciata di presenze di un direttore per dare «la sua impronta all’orchestra», che significa anche al teatro intero, è surreale. Il rapporto di un’orchestra con il suo direttore è complesso e di massima importanza e richiede spesso anni per essere sviluppato. Non è strettamente fondamentale e un’orchestra non è il suo direttore, ma possiamo vederne i risultati in alcuni dei massimi enti d’Italia (per non citare gli esempi internazionali), come Scala e Santa Cecilia. Proprio queste dimostrano inoltre quale sia il ruolo di immagine ricoperto da un direttore per il teatro e per l’orchestra in Italia e all’estero. Non si tratta solo di una figura professionale che dia l’impronta alla compagine, ma di uno dei volti del teatro, che lo rappresenta a livello internazionale. Sul modello “alla tedesca” per i cantanti non entro nel merito. Le ruvide criticità di Gabriele Ferraris su Torino risalgono già al 14 marzo e ci mostrano una volta di più quanto l’insofferenza nei confronti della gestione del Teatro Regio non fosse minimamente collegata al casus belli del supposto buco di bilancio. La sua applicazione mi lascia però enormemente scettico. Non posso che sperare che Graziosi, forte della sua esperienza con modelli ben diversi, smentisca rapidamente questi indirizzi politici.

Un’ultima osservazione mi preme far notare: ogni volta che si parla di qualità artistica sarebbe opportuno ricordare non solo quanti Abbiati abbia ottenuto Graziosi a Jesi, ma anche quanti ne abbia ottenuti il Teatro Regio con questi anni di Vergnano, Noseda e, infine, Fournier-Facio. Proprio quest’ultimo è troppo spesso ignorato nel dibattito ma è in gran parte a lui che si deve l’Abbiati del 2017 per la migliore iniziativa, grazie allo splendido progetto del Festival Casella del 2016. Quel format, proseguito con il Festival Vivaldi nel 2017 e R. Strauss in questo 2018, è una delle più interessanti novità nazionali e rappresentava un baluardo della possibilità di enti diversi di collaborare attivamente in manifestazioni dalle infinite sfaccettature e l’alto profilo artistico. Posso solo augurarmi con tutto il cuore che l’idea non venga accantonata con la furia iconoclasta che troppo spesso abbiamo visto in questi ultimi giorni.

Alessandro Tommasi

1 commento
  1. dadeluna
    dadeluna dice:

    Non so quanti “Abbiati” abbia vinto Graziosi a Jesi. So per certo che il Festival Pergolesi-Spontini, al tempo guidato assieme a Vincenzo De Vivo, ha fatto passi da gigante e meriterebbe maggior considerazione che non la conta dei Premi Abbiati ricevuti.
    Del resto non lo affermo affatto per sminuire il percorso di crescita del Regio in questi tanti anni di Vergnano che lo ha gestito in modo pregevolissimo e che ho personalmente lodato ogni volta che me ne è capitata l’occasione. Magari è solo l’occasione di cambiare un po’ e permettere ai due di allargare le loro esperienze professionali e personali?

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