Vicenza: il Jazz risuona tra le vie della Tebe di Palladio e Scamozzi
La scoperta del jazz da parte della musica cosiddetta “colta” ha avuto nel Novecento momenti di grande fervore creativo, dalle risonanze avanguardistiche, se non rivoluzionarie. Eppure, è difficile considerare questo capitolo come qualcosa di decisivo nella tormentata e complessa vicenda della musica moderna e post-moderna. Visto nella prospettiva storica, quasi un secolo dopo, il “contatto” avvenuto negli anni Venti e Trenta poteva in effetti avere ben altri esiti, rispetto alle correnti dominanti del neoclassicismo e perfino dell’atonalità e della dodecafonia. Certo, la scossa elettrica determinata dalla rivelazione di ritmi, armonie e colori così particolari, qualche salutare effetto l’ha avuto, ma a ben vedere si è trattato di esperimenti – talvolta basati su una snobistica curiosità – che non hanno fruttificato stabilmente, non hanno generato un “ibrido” davvero in gradi di autoaffermarsi a prescindere dalle occasionali circostanze del gusto.
Alla fine, dopo che la seconda metà del secolo ha visto le rispettive avanguardie divaricarsi piuttosto nettamente (quella post weberniana e quella jazzistica, intendiamo), rimane più che altro la logica della contaminazione, che però difficilmente mette radici ed esce dal contesto delle personali curiosità di qualche autore. Si ascoltano stili anche intriganti ma raramente tali da incidere sul linguaggio nella sua essenza. E si è venuto a creare un duplice, singolare paradosso: che l’effetto del jazz sulla musica colta è oggi – semmai lo si possa davvero rinvenire – mediato da una tale quantità di fattori (il primo è il passaggio attraverso la musica popolare e quella etnica) da risultare quasi sempre “disinnescato” rispetto alle sue potenzialità più affascinanti. Mentre nel senso opposto, cioè per quanto riguarda l’effetto della musica colta (non a caso, soprattutto quella antica) sul jazz, si assiste da qualche tempo a riflessioni talvolta davvero fervide e rivelatrici – come testimoniano ad esempio le escursioni bachiane di Brad Mehldau.
A proposito della diversa duttilità e apertura dei due mondi, ciascuno può fare le considerazioni che crede, fermo restando che il punto di partenza è che in entrambi i casi si tratta di piccoli mondi, se li si considera rispetto al dato numerico dei rispettivi appassionati, ma di grandi mondi culturalmente parlando. In ogni caso, il festival Vicenza Jazz non cessa di sostenere meritoriamente l’indagine e la riflessione sui punti di contatto storici. E lo fa da tempo, praticamente da sempre, riservando nei suoi programmi almeno un concerto che illustri appunto la ventura del jazz nell’ambito della classica durante la prima metà del Novecento (soprattutto).
L’ultima occasione si è avuta lunedì scorso, ovviamente e naturalmente al Teatro Olimpico. E nel presentare la serata, il direttore artistico Riccardo Brazzale questa volta ha colto l’attimo per togliersi un sassolino dalle scarpe. A proposito del tema, ha fatto infatti un riferimento critico a chi ritiene che la sede propria del jazz sia solo quella di qualche fumoso club, difendendo con fermezza la legittimità di portarlo anche al cospetto della scena palladiana. Legittimità che discende appunto anche, ma non solo, dai rapporti fra afro-americana e classica durante il Novecento. Se un secolo fa i più grandi autori classici si confrontavano con il jazz, ha detto in sostanza Brazzale, anche se era nato qualche decennio prima fra bettole e postriboli, non c’è motivo per cui lo si debba escludere dall’Olimpico, dove quegli stessi autori “alti” trovano regolare ospitalità. All’insegna della musica di qualità, senza inutili e dannosi steccati, aggiungiamo noi.
Brazzale non fa fatto nomi, ma non sfugge che il suo riferimento era anche a András Schiff, che da oltre vent’anni tiene una rassegna concertistica primaverile all’Olimpico. Da tempo, infatti, il pianista ungherese porta avanti una sua personale polemica contro il jazz nel teatro palladiano. Il suo parere – peraltro da nessuno richiesto – è stato ribadito sia nei testi pubblicati sui programmi di sala, sia anche, qualche anno fa, in un video allegato a un DVD realizzato proprio all’Olimpico. L’ultima di queste pubbliche esternazioni è avvenuta due settimane fa e questa volta Brazzale ha deciso di rispondere, con la pacatezza e la chiarezza che lo contraddistinguono e che lo hanno fatto apparire molto convincente.
La serata ha avuto per protagonisti gli strumentisti dell’Orchestra del Teatro Olimpico (che dovrebbe tornare più spesso nel suo luogo “eponimo”) diretti da Alexander Lonquich, lungo un percorso aperto da Kurt Weill con le sue celebri musiche di scena per l’Opera da tre soldi di Brecht (Berlino, 1928) e chiuso da La création du monde di Darius Milhaud (Parigi, 1923). Oltre l’eccentricità rispetto al classico delle formazioni orchestrali che entrambe le partiture dispongono (ottoni, fiati, percussioni in evidenza, sassofoni; Milhaud parlò di un’orchestra “come quelle di Harlem”), lo stile è piuttosto differente. Weill sciacqua i panni jazzistici nella Sprea e l’atmosfera berlinese emerge nettissima nello sguardo rivolto verso la musica di consumo e per il cabaret, non senza una vena melodica di buono effetto. Milhaud persegue uno scopo “avanguardistico” già sperimentato a Parigi – il ritorno a un passato ancestrale – assorbendo gli stilemi jazzistici New Orleans ma addomesticandoli alla parigina e regalando una pagina ricca di soluzioni solistiche eleganti per quanto brillanti. Fra questi due poli quasi coevi, c’è stato spazio per lo Stravinskij dell’Ebony Concerto. Di sicuro il punto più vicino al jazz del compositore russo, ma anche la dimostrazione di una sua sostanziale impermeabilità concettuale, prima ancora che stilistica, che emerge soprattutto nella non dissimulata sofisticatezza della forma. Trascurando la non memorabile “Techno-Parade” per pianoforte, flauto e clarinetto del francese Guillaume Connesson, un brano del 2002 in cui gli echi jazz si stingono nell’indistinto della fusion (ma bravissima la flautista Giulia Baracani), il pezzo forte musicale della serata è alla fine risultato la straordinaria Derivations per clarinetto solo e dance band di Morton Gould. Composta nel 1955, all’epoca degli astratti e ideologici furori di Darmstadt e della Neue Musik, è questa una geniale rivisitazione della forma concertante classica, che lungi dalla rigidezza stravinskiana esplora linguaggi e scrittura fino all’assoluto del blues imitativo della seconda parte ma con grandi esiti anche nella prima e nell’ultima parte. Fra l’altro, si tratta di una brillantissima vetrina di virtuosismo per il clarinetto che è stata esaltata dalla nitidezza e musicalità di Tommaso Lonquich, il figlio del direttore Alexander, impeccabile nell’andare oltre ogni laccio stilistico per trovare una libertà trascinante.
Tutti gli esecutori si sono del resto fatti valere alla grande, sia tecnicamente che per partecipazione ancor più emotiva che interpretativa, e Lonquich senior li ha guidati con il piglio autorevole di chi non conosce confini di genere. Così, un Olimpico gremito ha salutato la serata con trionfali accoglienze.
Cesare Galla
(14 maggio 2018)
La locandina
Vicenza Jazz Festival |
|
Orchestra del Teatro Olimpico | |
Direttore e pianoforte | Alexander Lonquich |
Clarinetto | Tommaso Lonquich |
Programma: | |
Kurt Weill | |
Suite da Die Dreigroschenmusik | |
Igor Stravinskij | |
Tango (versione per solo piano) | |
Morton Gould | |
Derivations for Solo Clarinet and Dance Band (1955) | |
Igor Stravinskij | |
Concerto per clarinetto e jazz band (Ebony Concerto) | |
Guillaume Connesson | |
Techno Parade | |
Darius Milhaud | |
La création du monde |
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