Firenze: Ritorno a Pontida 1.0

Composta sul finire del 1848, solo tre anni prima del Rigoletto, La battaglia di Legnano è in pratica la vera e forse unica opera risorgimentale di Verdi, ben più di Nabucco o Vespri. Il merito va in gran parte all’ostinazione del librettista Salvatore Cammarano, perché Verdi e Ricordi avrebbero preferito un soggetto ricavato dal più apertamente patriottico Rienzi di Bulwer-Lytton. Cammarano contropropose il rifacimento di un dramma francese senza particolari qualità: una banale storia di corna che, trasferita dalla Tolosa napoleonica alla Milano di Alberto da Giussano, trionfò al Teatro Argentina di Roma il 27 gennaio 1849 grazie all’atmosfera di esaltazione patriottica che arroventò i brevi giorni della Repubblica mazziniana.

Anche dopo la rivalutazione operata da verdologi eccellenti come Osborne e Budden, La battaglia non è titolo molto frequentato nei teatri odierni, e neppure troppo facile da mettere in scena. Se avesse ceduto alle sirene dell’attualismo, Marco Tullio Giordana poteva ben scodellarci un pic-nic di militanti sul prato di Pontida, con un Arrigo Salvini, un Rolando Bossi, o magari una Frau Merkel in corazza di strass e fulva barba posticcia a cantare minacciosa “Il destino d’Italia son io!”. Più, si capisce, un vescovone gay e un intero capitolo di monache impegnato in acrobazie erotiche coi Cavalieri della Morte. E invece, a parte un isolato e breve “buu” alla passerella finale, il pubblico del Maggio ha mostrato di gradire una regia tranquilla e referenziale, eppure tecnicamente assai ben organizzata quanto a scenografia, luci e costumi; un po’ sulla scia di un precedente allestimento di Piggì Pizzi visto a Parma nel 2012. Vero è che i solisti, e soprattutto le masse, non brillavano per audacia di movimenti scenici, ma in loro vece si muovevano alacremente a vista certi muraglioni di laterizio rossastro che di volta in volta si prestavano a raffigurare facciate di basiliche romaniche, cripte, palazzi pubblici e dimore nobiliari col verone già predisposto al salto nel vuoto. Medioevo virtuale, più allusivo che non “archeologico”.

Così questa seconda produzione del Maggio Fiorentino 2018, succedendo al fumettistico delirama atemporale del Cardillac firmato da Valerio Binasco, ci persuade dell’utilità di quella politica della biodiversità registica che già fece grande il Liceu di Barcellona prima della crisi separatista. L’uno e l’altro spettacolo, ognuno nel genere suo proprio, profilato senza compromessi e coronato dal tutto esaurito di auditori plaudenti; vuoi vedere che il pubblico è in grado di mangiare il fico postmoderno senza gettare il pomo della vituperata “tradizione”? E poi – diciamo la verità, signora mia – all’opera vogliono essere anzitutto buone voci e buoni direttori, non già le petrarchescherìe decostruttive della critica engagée.

Di tali risorse la produzione fiorentina non pativa carestia. Compagnia tutta italofona di nascita o di adozione visto che Albania e Corea del Sud sono ormai, liricamente parlando, province annesse; e nelle parti di contorno più di una promozione dai ranghi del coro di casa. La coppia dei compagni in battaglia e rivali in amore offriva un intrigante contrasto vocale – dunque, in adjecto, drammatico – fra l’Arrigo elegiaco e mellifluo di Giuseppe Gipali, capace perfino di morire con eleganza sul carretto del pronto soccorso, e l’austero Giuseppe Altomare (Rolando), guerriero e paterfamilias tutto d’un pezzo con una sfumatura di cavernoso/affumicato nell’emissione che in fondo non disdice al personaggio. Terzo nella compagnia dei maschi alfa, il Barbarossa di Marco Spotti esordiva un poco sottotono, confuso nella folla dei coristi, ma poi si riscattava con l’imponenza fisica e le recise bordate da basso tiranno di vecchio stampo barocco circondato da un plotone di sgherri in armatura uso Aleksandr Nevskij. Spade lombarde sguainate contro lance teutoniche sotto le volte del palazzo comunale di Como. E neppure un kalashnikov in vista? Qui si fa dell’accademia, signora mia!

Bene tutti i comprimari – consoli, podestà, araldo e scudiero – ma il livido sicofante Marcovaldo (Min Kim) sarebbe più convincente se la regia non gl’inceppasse i polsi in manette di corda forse troppo memori di Renzo Tramaglino.

Venendo alle signore: di Vittoria Yeo, emergente soprano in ruoli verdiani e pucciniani, si deve lodare il materiale bello e la buona scuola. Come Lida, la giovane allieva della Kabajvanska risultava attraente per intonazione precisa, agilità legate, soavi filati in acuto, luminoso registro centrale benché poco contrappesato nei bassi. Aggiungi bella presenza che mai non guasta, oltreché movenze trasudanti lealtà di sposa, passione dell’innocente calunniata, amor di madre ed altrettali sentimenti fuori moda. Giada Frasconi (Imelde) rendeva a dovere il ruolo mezzosopranile dell’ancella devota e complice. In una partitura dove non mancano squarci corali spesso allo scoperto né esplosioni di bandistica improntitudine, residuo dei verdiani “anni di galera”, l’ufficio del concertatore naviga fra gli opposti scogli perigliosi dell’understatement e dell’enfasi pacchiana. Si dà atto a Renato Palumbo di averli schivati entrambi fin dalla celebre ouverture, da lui condotta sul filo di contrasti tematici e timbrici articolati con una  sapienza sinfonica che è già del Verdi maggiore. Nel prosieguo si notava a tratti un certo meditativo allentamento dei tempi (vedi la preghiera del soprano all’inizio del quarto atto), ma in scene archetipe del nazionalpopolare, come il finalone concertato dell’atto secondo o il giuramento dei Cavalieri nel terzo, si scatenavano fiere tempeste di suono un po’ alla Toscanini o alla Gavazzeni d’antan,

Carlo Vitali
(Firenze, 27 maggio 2018)

La locandina

Direttore Renato Palumbo
Regia Marco Tullio Giordana
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Francesca Livia Sartori, Elisabetta Antico
Federico Barbarossa Marco Spotti
Rolando Giuseppe Altomare
Lida Vittoria Yeo
Arrigo Giuseppe Gipali
Marcovaldo Min Kim
Imelda Giada Frasconi
Primo console di Milano Egidio Massimo Naccarato
Secondo console di Milano Nicolò Ayroldi
Il Podestà di Como Adriano Gramigni
Un araldo / Uno scudiero Rim Park
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini

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