Bruno de Simone: Rossini e il belcanto nel mondo di oggi

Riconosciuto come un punto di riferimento nel repertorio belcantistico, Bruno de Simone è uno dei cantanti-attori più apprezzati del mondo operistico internazionale. Dal nostro incontro ne è nata una breve intervista che vi proponiamo con piacere.

  • Hai cantato Don Bartolo innumerevoli volte nel corso della tua carriera. Come si è evoluto il tuo approccio al personaggio?

Sì, effettivamente ho interpretato il ruolo del Dottor Bartolo in tantissime versioni, dalle più classiche alle più moderne, in moltissimi teatri in tutto il mondo, ed è sempre stato un grande divertimento calarmi nei panni del Dottore, che pare mi calzino a pennello… Mi sembra comunque importante precisare che prima di Don Bartolo io abbia cantato più volte il ruolo di Figaro, avendo rifiutato quando ero più giovane il primo per tre volte anche in luoghi di oltre oceano. Ciò perché questo tipo di ruolo richiede una maturità vocale e fisica che possa permettere di raggiungere quell’equilibrio di lettura di un personaggio “buffo” da intendersi nel più largo senso della parola…. Il vero buffo viene dal serio ma senza che ciò venga artificialmente costruito. Mi spiego. Il dottor Bartolo è un “medico stimatissimo di Siviglia” così come l’ha concepito Beaumarchais: egli ha una dignità sociale che incarna la media borghesia, colta ma nel contempo avida e meschina. E lo sbeffeggiare una classe sociale ben definita provocata ilarità. Il personaggio non è ridicolo “tout court” ma è immesso in una vicenda che è sicuramente buffa con situazioni addirittura farsesche di cui lui sembra artefice ma finisce per essere vittima. I travestimenti, ad esempio, costituiscono l’aspetto farsesco. Partendo da questa visione di studio iniziale, ho potuto conservare questo tipo di taglio del personaggio attraverso le varie impostazioni registiche che ho dovuto seguire: chiaro che si tratta sempre di un lavoro di mediazione tra te ed il regista… che, quando di livello, è capace di valutare le attitudini interpretative dell’artista. Ricordo, ad esempio, del Barbiere del compianto Ronconi che prevedeva un Don Bartolo molto cinico… a tratti duro: ecco che lì feci un lavoro di approfondimento ed adattamento che valeva la pena perché la visione del grande regista era assolutamente innovativa ed arricchente, che faceva di Bartolo il perno su cui ruotava tutto il dramma buffo. Altre volte, anche di recente, mi è toccato far valere la mia “autorità” di capo comico per difendere il preziosissimo apporto dei recitativi che talvolta vengono amputati, minando seriamente la comprensione della trama spiegati in essi. Credo che bisogna tributare un sincero grazie ad Enzo Dara, nel mio caso doppio… dato che mi citava spesso come riferitomi da qualche illustre critico, che è stato l’artista che ha saputo rifinire al meglio questo straordinario personaggio, facendo capire a noi tutti che… (come nella vita) chi si prenda troppo sul serio ne rimane vittima! Ecco da dove nasce il vero concetto di “buffo”: ciò che è umano, nelle sue debolezze, lo diviene automaticamente, senza bisogno di eccedere in cachinni, lazzi o letture caricaturali che non c’entrano nulla con la psicologia del personaggio. La produzione di Orange cui sto partecipando è originale e divertente anche perché la vicenda è trasposta negli anni ’60 in Italia, tempi de “La dolce vita”: ciò mi consente di rifarmi all’importante messaggio felliniano del sogno/realtà e la lettura di questa produzione, moderna come tante altre, è interessante per la ridefinizione dei personaggi, mantenendone fedelmente la loro psicologia.

  • Più in generale: esiste un Rossini “pre-renaissance”, diciamo prima degli anni Ottanta del secolo scorso, e uno successivo, legato alle edizioni critiche e a riscoperte di titoli dimenticati. Siamo in presenza di una nuova evoluzione?

È indubbio che la “Rossini Renaissance” iniziata a metà degli anni ‘70 abbia svolto un lavoro fondamentale per il recupero filologico delle partiture e, soprattutto, l’individuazione di uno stile che era da recuperare e di tutto ciò il principale artefice è stato Alberto Zedda cui tutti noi tributiamo somma gratitudine. Detto ciò, come spesso accade, l’entusiasmo ed una visione troppo “integralista” ha rischiato di oscurare il lavoro che grandi interpreti del podio e del palco avevano già svolto addirittura negli anni ’40/’50, seguendo strade più che degne e decorose: Vittorio Gui era stato tra questi, ad esempio, e all’ascolto delle sue esecuzioni un giudizio sereno ed obiettivo non può fare a meno di farlo ammettere. Lo stesso Zedda mi diceva che, nell’aver ridato alla luce le partiture come quella del Barbiere nella loro “originalità”, aveva solo voluto indicare la strada della fonte compositiva a cui riferirsi ma senza alcuna dipendenza coercitiva da essa. Ne sono poi seguite varie riscoperte di tanti… direi tutti i titoli del cigno pesarese. La più grande interprete di assoluto riferimento nell’individuazione della vocalità e stile rossiniani ritengo sia stata Marilyin Horne: è lei che, partendo dalla sua corda di elezione naturale ha “condizionato” la maggior parte delle esecuzioni del secolo scorso. Ma parliamo di una cantante che ha praticato anche altri repertori proprio come si usava fare un tempo ed anche per questo ritengo che abbia potuto dare il suo massimo contributo. La super-specializzazione, se da una parte offre certe garanzie, dall’altra va a privarsi dell’importante apporto che altro repertorio può offrire all’interprete, aumentandone a dismisura il suo bagaglio tecnico ed interpretativo. La Horne vantava una sessantina di ruoli eseguiti di cui una decina rossiniani, esattamente come tanti altri interpreti attivi nella Rossini pre-Renaissance. Ritengo molto importante tutto ciò perché esasperando il concetto di specializzazione si sta rischiando di impoverire di una componente essenziale alla scrittura vocale rossiniana che è l’interpretazione, la pulsione di ogni frase che talvolta rischia di cedere il posto al tecnicismo fine a se stesso. In tal senso, anche nell’ambito del tema variazioni, è fuor di dubbio che non esisteva solo una prassi consolidata sul versante musicale, ma esse andavano intese anche come espressione, intenzione, e dinamica.

Insomma è come se noi volessimo concepire un grande medico come eminente riferimento della sua branca specialistica, che però non avesse un’ottima conoscenza della medicina, intesa in senso olistico. Ecco che, una volta completata la missione della Renaissance, sarebbe auspicabile riferirsi ad una certa elasticità interpretativa, da una parte senza tradire l’enorme lavoro che è stato fatto per riportare tutto com’era alle origini, e dall’altra considerare e valorizzare ciò che di buono avevano già fatto grandi esecutori, prima di Abbado del ’74.

  • Posto che non sono un grande amante delle classificazioni rigide faccio lo stesso la domanda. Quali sono le caratteristiche di una voce “rossiniana”?

In coerenza con ciò che dicevo prima, direi che una “voce “rossiniana” dovrebbe avere le stesse caratteristiche tecniche di altre, ma senz’altro possederne alcune di queste ben salde: la flessuosità, la morbidezza, l’agilità e la perfetta articolazione. Ma questo è quanto occorrerebbe anche in altri repertori: ecco che si fa posto alla pertinenza stilistica del fraseggio dell’interprete cioè alla sua sensibilità più o meno in sintonia con il dettato rossiniano. Tecnicamente direi che l’estensione vocale è assolutamente la base per realizzare i requisiti precedenti ma ancor più è l’uguaglianza dei registri, con la possibilità di mantenere la pronuncia di ogni vocale a qualsiasi altezza di suono. Il canto a fior di labbra così come la “mezza voce” sono armi essenziali per essere… anche “rossiniani” così come l’agilità per le colorature.

Alessandro Cammarano

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