Yamal Das Irmich: quando la regia è vocazione ed energia
Il rimedio alla calura estiva c’è: una bella doccia musicale a suon del Pesarese proprio nell’anno che ne celebra i 150 anni dalla scomparsa. Abbiamo infatti recentemente goduto di una sferzata di energia rossiniana assistendo a Il Barbiere di Siviglia messo in scena nella suggestiva cornice trecentesca del Castello Carrarese di Padova, ex osservatorio astronomico prima, carcere poi, ora poliedrico spazio per eventi en plein air. Fresco di applausi da un caloroso pubblico che ha gremito il luogo fino all’ultimo posto disponibile, e reduce da una seconda felice rappresentazione del titolo a Bassano del Grappa ieri sera 5 agosto, il giovane regista varesino Yamal Das Irmich ci ha concesso una piacevole chiacchierata sulla sua professione e sulla sua visione dello spettacolo.
Biografia del Regista
Classe 1985, dopo la laurea in Scienze dello Spettacolo a Milano conseguita con il massimo dei voti, studi di solfeggio e pianoforte, si forma artisticamente in seno all’Arena di Verona, tra le cui antiche pietre inizia a collaborare come comparsa dal 2006 e, due anni dopo, entra a far parte dell’Ufficio regia per il celebre Festival lirico. Qui, e non solo, ha modo di lavorare con registi di fama mondiale, fra i quali Franco Zeffirelli, Hugo de Ana, Pier Luigi Pizzi, Gianfranco de Bosio, La Fura dels Baus, Arnaud Bernard e Graham Vick, di cui è assistente dal 2014.
- Come nasce la passione per l’opera?
Ero solo un bambino, di circa 8 anni e non ne capivo nulla, neppure quello che dicevano i cantanti, che per me urlavano e basta. Poi mi capitò di ascoltare la Marcia Trionfale di Aida in TV e chiesi a mio padre cosa fosse; lui mi rispose che faceva parte di un’opera lirica, “quelle che a te non piacciono” disse. Allora scoprii Aida come una favola, una favola egiziana dalle musiche bellissime, e poi c’è stata Turandot… Ho deciso che il mio percorso sarebbe stato il teatro. Allora ho iniziato a mettere in scena le opere, senza sapere cosa fosse la regia, nel salottino di casa con i miei giocattoli, oltre a tavoli, sedie, bicchieri, servizi di cristallo per tutti i brindisi. Ho persino fatto fare la comparsa anche al mio cane!
- E oggi chi è Yamal, giovane aiuto regista e regista emergente?
Mi definirei una persona consapevole, consapevole di dover crescere e di essere cresciuto. La vita per me è un grande gioco; a volte si gioca barando e a volte si gioca secondo le regole, ma è più bello giocare secondo le regole.
- Veniamo alla tua regia de Il Barbiere di Siviglia, tra le opere più rappresentate al mondo. Mi risulta che per te non sia la prima volta…
Ho debuttato come regista nel 2009 proprio con questo titolo, a Belluno e a Silandro, là giocoforza con uno spettacolo legato alla Commedia dell’Arte. Ora lo rimetto in scena per la seconda volta, con una lettura decisamente diversa.
Il Barbiere di Siviglia è un’opera di una profondità sconcertante. È una musica umorale che trasmette un’ironia sottilissima: più che far ridere penso debba far sorridere, in questo scontro tra giovani e vecchi, in cui emerge anche il tema dell’amore. E poi penso debba anche far piangere, commuovere, mentre assistiamo alla crescita di Rosina lungo tutta la vicenda, con l’apice nel temporale, che è “il temporale di Rosina”, metafora dei moti della sua anima. Barbiere è poi l’opera dei fogli, dei fazzoletti, che io qui ho trasformato in banconote, a partire dal vestito della protagonista.
- Nella tua lettura del Barbiere hai quindi prediletto il tema del denaro, dell’oro declamato da Figaro subito all’inizio dell’opera, esasperandolo fino a costringere Rosina a vivere in una cassaforte…
L’oro è il vero regista, il vero leitmotiv dell’opera, come suggerisce la genesi di questa partitura e tra le righe il suo primo titolo, ovvero Almaviva, o sia l’inutile precauzione. È stato infatti l’oro, il guadagno e la gloria facili, a spingere Gioachino Rossini ad accettare l’incarico nel 1816 per il Teatro Argentina di Roma e proporre questo spettacolo con musiche “copiate” al 40-50 per cento da altri suoi lavori dati altrove, dato che nel ‘16 non era proprio così facile viaggiare. Quindi sentire come la Sinfonia del Barbiere venga da un’opera seria mi ha fatto molto riflettere sulla furbizia, sull’oro, sul materialismo e sulla genialità assoluta di Rossini che pare abbia composto l’opera in soli venti giorni. La chiave di lettura nasce quindi da questo, e poi ovviamente dal fatto che l’oro viene citato nel 90 per cento dello spettacolo. L’oro è quindi il motivo più apparente, ma non l’unico.
- Quali altri i fili conduttori che hai voluto evidenziare?
Lo spettacolo parla di una giovane ricca pupilla che vive a casa del tutore, il dottor Bartolo. Io ho voluto evidenziare questi aspetti con alcuni simboli, mettendo Rosina a vivere in una cassaforte, un forziere che è anche una scatola magica, un caleidoscopio da cui si spia e si osservano delle meraviglie. E Rosina è l’oggetto prezioso, che in questa “scatola magica” viene vista dal mondo esterno, mentre lei è costretta a stare lì, tra pareti specchiate che riflettono la sua immagine un po’ distorta, tra la noia assoluta e l’insicurezza.
- E anche un po’ di nevrosi…
Certamente, c’è un’isteria di fondo dovuta a questa sua solitudine, a questa sua ricerca di attenzioni, a questo suo essere bambina che cerca qualcosa di nuovo, una spinta di crescita che verrà nel secondo atto. Rosina come tutte le adolescenti insicure ha capito che la seduzione può essere uno strumento sia di potere, che di accrescimento della sua sicurezza interiore. Lei ha bisogno di un’approvazione continua, per questo ho pensato al duetto con Figaro come una lotta “di intelligenze”, dove lei cerca in qualche modo di provocare in lui una reazione erotica per trovare delle tristi conferme.
- Tutto questo esplode alla fine del primo atto.
La prigionia emerge con forza nel concertato finale del primo atto dove Figaro manovra tutti come marionette, da grande dramma borghese, quasi surrealista, che ricorda molto il teatro di Ionesco. Queste tinte in qualche modo “autistiche”, che caratterizzano un po’ tutti personaggi, qui vedono un Figaro che si illude di gestire le vite degli altri mosse dalla paura e quindi governabili. Ma solo alla fine, quando tutti i personaggi vengono attratti dalla cassaforte, solo Rosina non sottostà al barbiere, anticipando il finale dell’opera.
- Hai messo, inoltre, molti personaggi a muoversi tra il pubblico, a partire da Figaro che all’inizio dello spettacolo distribuisce volantini per trovare nuovi clienti.
Ormai l’abbattimento della quarta parete, dal mitico Orlando furioso di Ronconi del 1969, è diventato un concetto retorico, non può essere più una novità. Nel 2018 non si può più pensare di rappresentare tutto solo sul palcoscenico. Il teatro può essere fatto ovunque: teatro è dove una persona agisce e una osserva. Il pubblico, quindi, è già di per sé un attore ed è coinvolto nella rappresentazione anche quando vede l’azione sul palcoscenico, tramite la sua freddezza o la sua partecipazione ed energia con cui comunica con gli artisti in scena. È un tutt’uno.
- A proposito del fare teatro oggi, tra tempi spesso risicati per le prove e budget non più faraonici, come la vedi?
Questo è il mio terzo spettacolo come regista [nel 2017 cura la regia di Madama Butterfly di Puccini per l’Associazione “VoceAllOpera” presso lo Spazio Teatro 89 di Milano, n.d.r.], oltre a diverse riprese di spettacoli di altri registi, anche con tempi molto stretti. Sta tutto nel potere dell’incontro energetico tra le persone, nonostante le tante variabili da affrontare. Questa alchimia è la chiave della riuscita dell’idea registica: il compito del regista, così come dell’aiuto regista, è di saper “incontrare” l’altra persona e metterla a proprio agio con la chiave di lettura affinché questi possa interiorizzarla. Non è tanto questione di tempo, quanto che l’interprete sia disposto a lasciarsi coinvolgere e mettersi in gioco, fino a sposare e fare propria la visione del regista. Alla mancanza di tempo o di soldi si sopperisce sempre con l’energia individuale e un’abbondanza di idee, ben chiare.
- Progetti per il futuro?
Ho molti progetti in cantiere, sia come regista che come aiuto regista, alcuni con grandi nomi, di cui al momento non posso ancora parlare. Ad ogni modo auspico di poter presentare quanto prima ancora qualcosa di mio e nel frattempo continuerò a viaggiare, incontrare altre culture, crescere ancora e mettermi in gioco. Insomma a “saltare sulle nuvole”.
Tania Cefis
(6 agosto 2018)
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