Il Festival Verdi 2018 fra Natura e Sovrannaturale: parlano i registi
Mancano pochi giorni all’apertura del Festival Verdi che, come abbiamo avuto modo di approfondire nell’intervista ad Anna Maria Meo (pubblicata qui), è arrivato alla maggiore età diventando un festival vero e non un semplice prolungamento della stagione d’opera del Teatro Regio di Parma.
Edizioni critiche, versioni alternative, titoli non usuali, produzioni che non vogliono limitarsi a “piacere”, ma che spingono il pubblico alla riflessione. A teatro si va per pensare e per discutere.
Tre i titoli di punta di questo Festival, a cui si affianca la produzione bussetana di Un giorno di regno, che nasce con e per i giovani in collaborazione con il Concorso Internazionale Voci Verdiane Città di Busseto, e tre registi estremamente diversi tra loro ma tutti capaci di esprimere un concetto personalissimo di teatro in musica.
A Daniele Abbado è affidato lo spettacolo inaugurale, ovvero il Macbeth nella sua prima versione, del 1847, che presenta differenze sostanziali, anche sul piano strettamente drammaturgico, rispetto al rifacimento del 1865, più noto e rappresentato.
«Macbeth è un personaggio profondamente, tragicamente umano. – scrive Abbado – Lo spettatore non lo giudica, il suo percorso di sofferenza è un percorso totalmente umano, nei suoi confronti viene da provare rincrescimento e forse compassione, a differenza di Lady Macbeth che generalmente incute sgomento, a tratti orrore. Nell’ ambivalenza di Macbeth c’è anche un’attrazione verso il male. Macbeth sceglie la strada dell’agire per non pensare, quasi che la mano possa uccidere il pensiero; egli è una variabile estrema della presenza del male nell’uomo. Alla fine, l’esperienza del male renderà l’uomo Macbeth nemico di se stesso.»
All’elemento umano corrisponde quello occulto. Dice ancora Abbado «Le streghe sono un passaggio necessario. Perché Macbeth creda nel vaticinio è necessario che questo gli arrivi da una voce “altra”. Le streghe rivelano a Macbeth il proprio desiderio. Un pensiero a lui sconosciuto e inaspettato al quale i Sire di Glamis reagisce con paura.».
Fortemente esaltato risulta il rapporto fra Macbeth e la sua sposa amorale, che il regista sintetizza così: «È una coppia con un legame fortissimo quella di Macbeth con Lady Macbeth. Eppure non cogliamo tra loro alcuna intimità amorosa, sembrano più legati dall’aspetto del dominio. La sensualità tra i due è totalmente repressa e trasferita in metafore. Sublimata nelle metafore del “fare”. E poi nel sangue. Vediamo Macbeth soccombere al desiderio di lei, ma già le streghe ci hanno detto che Macbeth è dannato. Terribile ironia: nel momento in cui gli hanno aperto il pensiero sul futuro, glielo hanno tolto.».
«Il progetto che presentiamo al Festival Verdi – prosegue il regista – vive di un doppio registro: da una parte un mondo di immagini generate da buchi neri, da una nebbia costante, immagini che questi buchi neri inevitabilmente riassorbiranno; dall’altra un mondo di apparizioni, allucinazioni, drammatiche e a volte quasi carnascialesche. […] Le stanze narrative di questo Macbeth dovranno essere eterogenee e piene di contrasti, dalla pioggia che cade sul campo pieno di sangue dove le streghe officiano, al banchetto reale vicino a un sogno ensoriano, all’antro delle streghe dove Macbeth si reca per conoscere il proprio destino, alla foresta incantata che si trasforma in castigo. È un viaggio che inizia e finisce con una pioggia diffusa, impalpabile, dal dolce suono, acqua che lava il sangue versato ma non la macchia rimasta nelle mani».
Dopo Peter Greenaway e la sua Giovanna d’Arco e lo Stiffelio “partecipato” di Graham Vick al Teatro Farnese arriva Robert Wilson a mettere in scena Le trouvère, ovvero la versione francese del Trovatore andata in scena all’Opéra di Parigi nel 1857. «Il trovatore è stato accusato di avere una storia confusa – dice Wilson – e che l’azione si muove troppo velocemente. Trovo interessante che l’opera non abbia uno sviluppo fluido; il lavoro è strutturale, è costruito in quattro blocchi simmetrici, quattro atti, e ogni atto è composto di due parti dove le azioni, le emozioni, i luoghi e il tempo si riflettono a vicenda. Ad ogni atto Verdi ha dato un titolo, Il duello, La gitana, Il figlio della zingara e Il supplizio, e con queste quattro intestazioni riesce a descrivere tutti i conflitti all’interno dell’opera. Questo quadrato di quattro atti e quattro personaggi è fatto di due triangoli che si sovrappongono. Verdi è famoso per le sue relazioni triangolari. Per farla semplice, questa è una tragedia familiare e per tanti verdi si può dire che sia una storia molto contemporanea. La struttura che costruisce Verdi è quella di una donna tra due uomini e di un uomo tra due donne.».
Wilson ha idee estremamente chiare sulla struttura dell’opera, e prosegue: «In contrasto al mondo feudale del Trovatore, ho messo in scena una realtà parallela silenziosa, ispirata dalle cartoline vintage e popolata di gente comune del diciannovesimo secolo, gente che Verdi avrebbe visto in città e nei paesi limitrofi. Un uomo anziano seduto, una vecchia signora alla fontana, una giovane ragazza che spinge una carrozzina: queste figure silenziose vivono in un altro mondo, un mondo di ricordi. Esistono al fianco dei personaggi di Verdi ma raramente interagiscono tra loro. Come il balletto del terzo atto, sono in contrappunto col resto dell’opera.».
Riguardo allo spazio teatrale, o forse antiteatrale, del Farnese Wilson chiosa: «Il Teatro Farnese di Parma è uno dei più bei teatri al mondo. È una sfida fare qualcosa su questo palcoscenico perché è già architettonicamente molto interessante e può risultare quasi una distrazione inserire qualcosa nello spazio. Per questo ho deciso di costruire un elemento di contrasto all’architettura barocca esistente. Le Trouvère richiede una grande quantità di concentrazione, per cui la scena che ho creato è astratta, così da creare uno spazio per la musica all’interno del Farnese. Ho progettato un ambiente di cemento, creando una giustapposizione con l’interno decorato del teatro».
Ad Andrea De Rosa è invece affidata la regia di Attila.
«Mi sembra che un profondo senso del sacro, inteso come ordine armonico delle cose, si ritrovi in tutta l’opera di Verdi – scrive De Rosa – e che un dolore si manifesti nella sua musica ogni volta che questo ordine, sia esso naturale, familiare, sociale o politico, viene negato e oltraggiato. La ferocia degli uomini, che fin dal prologo viene messa a tema dell’Attila, è uno degli elementi di maggior disturbo di questo ordine.».
Anche qui l’elemento sovrannaturale, che poi è il filo conduttore di questo prossimo Festival, è ben presente e De Rosa lo sottolinea: «Odabella prima, Attila poi, sono scossi da visioni di fantasmi così vivide che si confondono con la realtà. Lungi dall’intendere questi eventi come mera ingenuità superstiziosa, mi sembra invece che Verdi ci inviti ad intenderli come potenza ignota e misteriosa, come segni di una natura che non si piega alla semplice funzione di sfondo, di comprimaria, ma che anzi assurge a ruolo di protagonista a tutti gli effetti.».
Alessandro Cammarano
Lascia un Commento
Vuoi partecipare alla discussione?Sentitevi liberi di contribuire!