Parma: “Le trouvère” come liturgia maieutica
Forse lo spettacolo perfetto non esiste, certo è che Le trouvère andato in scena ieri sera in quell’inusuale contenitore che è il Teatro Farnese alla perfezione si avvicina parecchio.
L’opera che Verdi presentò all’Opéra di Parigi nel 1857 non è una pedissequa versione ritmica del Trovatore, ma di fatto un’opera nuova, con varianti sostanziali che permettono al libretto francese di Émilien Pacini di scorrere senza inciampi o forzature negli accenti e nella sillabazione. I quasi trenta minuti di ballabili al terzo atto ne fanno il Grand-Opéra che la Francia richiede.
È meno sanguigno Le trouvère rispetto al Trovatore, più introspettivo, capace di scandagliare l’animo dei personaggi con maggior delicatezza pur mantenendo l’incisività originale.
Abbiamo assistito ad una prova di teatro in musica inteso come rito, una celebrazione in cui l’officiante, forse meglio dire gli officianti, fa sì che chi assiste trovi dentro di sé le risposte che cerca; come in una seduta psicoanalitica che porti all’emersione dell’inconscio e di conseguenza alla rguarigione.
Spettacolo dunque difficile da raccontare proprio per il suo far leva sulle e mozioni più intime di ogni singolo spettatore.
Robert Wilson come sempre, ma qui più e con maggior forza che in altre occasioni, lavora per sottrazione, quasi a “non voler disturbare la musica” e il suo Trouvère maieutico vola altissimo.
Lo spazio teatrale immaginato da Wilson, con la collaborazione di Nicola Panzer per la regia, Stephanie Engeln per le scene e Solomon Weisbard alle luci, definisce un ambiente di colori primari, con una dominanza di grigio e azzurro ghiaccio, illuminato dal basso a creare un effetto di straniante sospensione. File di piccoli led segnano il cammino interiore dei personaggi diventando essi stessa musica, come musica divengono le piccole finestre, bianchissime o rosse che si aprono virtualmente sulle pareti. Incredibile il taglio obliquo di luce sull’ultima scena.
Wilson non racconta una storia, fa sì che in qualche maniera sia il pubblico a raccontarla a se stesso, attraverso i simboli, i gesti rarefatti che richiamano il teatro Kabuki, che torna anche nei costumi geometrici e bellissimi di Julia von Leliwa e il trucco elaborato di Manu Halligan.
Una prova di teatro gigantesca, continuiamo a ripeterlo, alla quale sul palcoscenico assistono una serie di personaggi muti che ora semplicemente osservano, ora interagiscono con la narrazione: un vecchio magrissimo, una donna anziana e corpulenta, una giovane madre e due bambine, tutti vestiti di grigio e posti a rappresentare qualcosa che si avvicina alle diverse età della vita.
Teatro puro, o più esattamente distillato di teatro, percorso da un continuum poetico che non conosce un solo attimo di cedimento, mai autocompiaciuto e costantemente a servizio della musica. Meravigliosa la carrozzina spinta dalla donna anziana durante il racconto di Azucena e che poi ricompare poco più tardi in forma di puro scheletro metallico a sottolineare la perdita del figlio. Impossibile dar conto di tutto, servirebbero fiumi d’inchiostro e ancora non avremmo detto nulla; non si può però non sottolineare la poesia delle videoproiezioni, realizzate da Tonek Jeziorski, che ci mostrano prima le immagini di una Parma di inizio Novecento sul coro degli zingari, poi un rosso fiamma guizzante e inaspettato sulla ballata di Azucena e infine un uccello bianco in volo in un cielo appena velato di nuvole durante l’aria di de Luna.
I ballabili, splendidi ma eterni, sono risolti da Wilson in un’esibizione di boxeur alla quale il vegliardo osservatore in scena partecipa divertito battendo il ritmo col piede e accennando a movimenti di danza senza mai alzarsi dalla seggiola sul cui siede. La scelta dei boxeur danzatori, che entrano in scena in ordine decrescente di età è perfetta: uomini e bambini dai capelli neri e donne e bimbe rosse di chiome; tutti con pelle bianchissima, quasi traslucida. Dall’apparente stranezza dell’idea nasce ancora una volta una soluzione del tutto coerente con la poetica wilsoniana.
A consacrare definitivamente la serata memorabile cui abbiamo assistito contribuisce un’esecuzione musicale che rasenta anch’essa la perfezione.
Roberto Abbado, in stato di grazia, guida l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna in una narrazione che poggia su un’arcata sonora apparentemente ininterrotta tanto è tesa e che invece si rivela via via ricca di indugi indagatori, di agogiche insinuanti, di spunti dinamici ammaliatori. Ci sono la notte e le ombre in questo Trouvère e Abbado riesce a renderle elevandole al rango di pura poesia.
Il Manrique disegnato da Giuseppe Gipali rifugge da qualunque eccesso eroico assurgendo al rango di eroe romantico, capace di trarre forza dalle sue fragilità. Il canto si incardina su un fraseggiare appassionato e al medesimo tempo contenuto.
Roberta Mantegna, forte di una linea adamantina, è una Léonore impeccabile resa con ricchezza di accenti e colori in tutte le sue sfumature. La salita all’acuto è luminosa e le agilità risolte con bella morbidezza.
Il Comte de Luna di Franco Vassallo, che Wilson vuole canuto, è finemente cesellato, introspettivo ma capace di accendersi in slanci appassionati con un canto tutto sui fiati.
Nino Surguladze è Azucena di spessore, autorevole nei gravi, sicura negli acuti, affabulante, giustamente contraddittoria negli accenti, il tutto a far emergere la lucida follia del personaggio.
Ottimo il Fernand di Marco Spotti che come sempre canta e fraseggia con arte sapiente e grande attenzione al dettato musicale cui aggiunge la sua personale sensibilità.
Sicura e partecipe la Inès di Tonia Langella, bravo Luca Casalin nel doppio impegno come Ruiz e Messager e bene Nicolò Donini nei panni del Bohémien.
Molto bene ancora una volta il Coro preparato da Andrea Faidutti.
Successo pieno da parte di un pubblico che è sembrato trattenere il fiato durante tutta la serata, un solo tentativo di dissenso all’uscita di Wilson, uno, travolto da un torrente di applausi.
Alessandro Cammarano
(29 settembre 2018)
La locandina
Direttore | Roberto Abbado |
Ideazione, regia, scene e luci | Robert Wilson |
Co-regia | Nicola Panzer |
Collaboratore alle scene | Stephanie Engeln |
Collaboratore alle luci | Solomon Weisbard |
Costumi | Julia von Leliwa |
Make-up design | Manu Halligan |
Assistente alla regia | Giovanni Firpo |
Video design | Tonek Jeziorski |
Drammaturgia | José Enrique Macián |
Maestro del coro | Andrea Faidutti |
Manrique, le Trouvère | Giuseppe Gipali |
Le Comte de Luna | Franco Vassallo |
Fernand | Marco Spotti |
Ruiz | Luca Casalin |
Léonore | Roberta Mantegna |
Azucena, la Bohémienne | Nino Surguladze |
Inès | Tonia Langella |
Un Bohémien | Nicolò Donini |
Un messager | Luca Casalin |
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna |
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