L’opera lirica non è un mondo per vecchi: intervista con Cecilia Ligorio
A poche ore dalla prima della Semiramide di Gioachino Rossini al Teatro La Fenice Federica Fanizza ha incontrato Cecilia Ligorio, donna di teatro a tutto tondo e musicista, che firma la regia di questo nuovo allestimento. Ne è nata un’intervista corposa che fa il punto sull’imminente produzione e non solo.
- Hai iniziato nel mondo del teatro di prosa sperimentale, con Benedetto Sicca porti avanti le attività dell’associazione Ludwig – officina di linguaggi contemporanei : ti senti ancora parte di quel mondo di sperimentazione e come ti rapporti con la ricerca teatrale?
Il teatro è la mia prima casa ed il mio primo amore. Amo e seguo il teatro. Amo e seguo il percorso delle persone con cui ho iniziato e che fanno parte delle mie origini. L’esperienza con Benedetto Sicca nasce da questo. Così come quella con la compagnia belga IfHUman, insieme a Gaia Saitta, o Deliri, un monologo con la regia di Tommaso Rossi che è stato l’ultimo progetto come attrice. È molto importante per me mantenere un legame con il mondo della ricerca teatrale perchè allena uno sguardo più ancorato ai dettagli e al corpo e perché nella prosa spesso si osa con più libertà.
- Teatralmente dove ti sei formata?
Ho studiato recitazione all’Accademia Nazionale Silvio D’Amico a Roma. Subito dopo sono partita per Barcellona dove ho completato il mio ciclo di studi con uno studio sulla biomeccanica presso l’IT. Non posso dire di aver avuto un vero maestro che abbia guidato il mio percorso, ma tanti e preziosi sono stati gli incontri con persone che non solo hanno arricchito la mia tecnica ma anche aperto il mio sguardo e la mia curiosità. Tra i più cari al mio cuore certamente ci sono Lorenzo Salveti, Pino Passalacqua, Paolo Terni, Monica Vannucchi, Wajdi Mouawad, Julie Stanzak e Nicolai Karpov. Per quanto riguarda la musica, l’esperienza fondamentale è stata iniziare a studiare violoncello da ragazzina. Ho chiesto ai miei genitori di studiare musica perché la domenica ascoltavamo Bach finchè preparavamo le torte. Non ho finito il conservatorio, ma ho sempre cercato di reintegrare quel linguaggio nella mia vita. Nell’opera ho trovato la sintesi perfetta tra la scelta appassionata e univoca di fare teatro per vivere fatta a 14 anni e il desiderio di bambina di fare musica.
- Tra Italia e Spagna quali sono le differenze e analogie nella formazione e nella ricerca in ambito teatrale.
Sono paesi molto diversi. In Spagna c’è grande rispetto e cura per la nuova drammaturgia, ma trovo che gli attori italiani siano più bravi, più consapevoli del loro strumento. Si osa in maniera diversa.
- L’interesse per la musica lirica è nata da una passione o da un incontro nato per esigenze professionali?
L’interesse è per la musica, più che per la musica lirica. Più ancora per l’incontro dei linguaggi. L’opera è un luogo meraviglioso perché mette in relazione contemporaneamente molte tecniche e molte sintassi.
- Cosa ti ha convinto ad “entrare” nell’ Opera?
Trovo che l’Opera sia una celebrazione euforica di umanità. Mi spiego meglio. L’opera ci ricorda quanto è incredibile l’essere umano: un solo uomo, una sola donna riescono, attraverso il loro corpo e la loro voce, a superare la massa sonora di un’intera enorme orchestra, a sua volta composta da persone che hanno dedicato la loro vita a fare della musica e della bellezza il centro della loro vita. E tutto questo, solo con la speranza di commuoverci con storie di amori e morti, necessità e desideri. Forse è stato un caso iniziare a fare opera. Ma non per caso non ho mai più voluto smettere.
- L’opera sembrerebbe “cosa per vecchi” ma nella messinscena per il teatro lirico hai intravisto qualche possibilità di mettere a frutto la tua esperienza nel teatro di ricerca ?
Sono due linguaggi fratelli, ma non uguali. Credo che, sia nel caso del teatro che nel caso dell’opera, la sfida sia quella di affrontare il Testo assumendosi il rischio di cercare una ragione, un senso che abbia a che fare con la parte più vulnerabile di noi. Anche il teatro lirico offre un grande spazio di sperimentazione. Forse il pubblico dell’opera però è meno aperto agli inevitabili errori e delusioni che la sperimentazione porta inevitabilmente con sé. Credo che l’equivoco in cui a volte noi registi cadiamo, sia però usare il legittimo spazio di libertà e sperimentazione operistica, senza consapevolezza del linguaggio specifico. Credo anche che si debba trovare una maniera per costruire un ponte tra l’opera e il pubblico di oggi e che questo abbia anche, ma certamente non solo, a che fare con la sperimentazione e le nuove tecnologie.
- Filologica o innovativa nella lettura del libretto?
Non lo so! Di solito mi metto di fronte al libretto come mi metto di fronte allo specchio, cerco di guardare quello che c’è davvero nella storia. Mi chiedo: “qual è il senso? di cosa parli? perché è importante raccontarti?” E una volta identificata la “necessità di narrazione” decido, o forse più che decido intuisco, quale sia la forma giusta con cui restituire questo nucleo caldo al pubblico. Il mio è spesso un desiderio di trovare un approccio più “esistenziale” che formale.
- E come librettista (Shi dedicato al missionario Matteo Ricci Macerata 2016) come ti sentiresti se un allestitore ti stravolgesse un tuo testo teatrale?
Mi divertirebbe moltissimo vedere una mia opera letta ed interpretata da qualcun altro.
- L’esperienza di palcoscenico: i tempi di preparazione della prosa sono diversi dai tempi di messinscena dell’opera. Quanto tempo speri di avere a disposizione con i cantanti?
Ogni lavoro ha necessità diverse. Ma è vero che si ha sempre meno tempo, non solo per provare con i cantanti ma proprio per costruire lo spettacolo. Si e perso cioè il valore del tempo della creazione. Quindi spesso ci si trova a rimanere ad un livello di lavoro molto più superficiale per mancanza di tempo. Per quanto mi riguarda, non sono molto brava ad improvvisare, per cui amo arrivare con un’idea molto forte sia sulle scene che sui personaggi, per poi trovare la maniera di creare ponti tra la mia idea e gli interpreti con cui devo lavorare in modo che l’ idea aderisca al vero corpo e alle reali caratteristiche di chi ho di fronte senza forzature e si nutra delle loro intuizioni personali. Insomma… detto meno poeticamente, sono una dittatrice amabile!
- Adesso sei a Venezia con la Semiramide di Rossini, trama complessa e con alcuni modelli di allestimenti abbastanza recenti ma controversi (tra l’altro Benedetto Sicca tra i collaboratori del progetto Ludwig ha collaborato con Luca Ronconi come regista assistente per l’opera lirica in Semiramide nel 2011). La tua Semiramide chi è? mito o personaggio reale? e come sarà? classica o post moderna?
Devo dire che all’inizio mi ha fatto proprio paura sapere che gli ultimi allestimenti di Semiramide sono stati firmati da nomi così autorevoli come Ronconi e Pizzi! Ma poi ho capito che chi faceva paura non erano loro, bensì Semiramide! Un’opera immensa, monumentale, meravigliosamente complessa e difficile. La risposta è stata ossessionarmici! Ho studiato. Ho ascoltato. Ho atteso. Ho studiato. Ho ascoltato. Ho atteso. Poi ho iniziato a riconoscere quali fossero i pilastri inamovibili su cui costruire lo spettacolo e la drammaturgia dei segni. Semiramide è un personaggio tragico. È donna, è madre, è regina, anzi una tiranna, è assassina, è vittima. Ho voluto riportarla a noi scegliendo di non forzare in una trasposizione ai tempi moderni. Non mi sembrava però neppure interessante un approccio storico. Ho scelto e cercato di percorrere la via dell’archetipo. Il primo atto è espressione della manifestazione del potere di Semiramide. Un potere apparentemente inamovibile, solido, abbagliante e meraviglioso, proprio come meravigliosamente ordinati e stabili erano le manifestazioni pubbliche ed architettoniche dei regimi. Ma l’emersione delle colpe antiche, dell’hybris, rivela che questo mondo è solo apparente e copre il nero della sua anima. Tutto il pensiero sull’allestimento ha preso il via da un verso cantato da Assur, suo amante e complice, che all’inizio del secondo atto le dice: “Scendi e trema nel tuo cor”. Il mondo che vediamo in scena è un riflesso del cuore, dell’anima di Semiramide. Del suo potere, delle sue ombre, delle sue paure, delle sue colpe. La mia fortuna è essere stata circondata da artisti magnifici: le scene sono di Nicolas Bovay, i costumi di Marco Piemontese, le luci di Fabio Barettin e le coregrafie di Daisy Ransom Phillips.
- Nella realizzazione di Martina Franca del “Giulietta e Romeo” di Vaccaj un elemento importanti è dato dai costumi. Costumi e scene sono progetti indipendenti o costituiscono una visione d’assieme insieme alla regia?
Lo spettacolo funziona quando tutti i dipartimenti sono al servizio della storia. E la storia si racconta bene se si racconta insieme. Il risultato è una preziosa rete costruita da sguardi diversi ma intrecciati con grazia e misura insieme. Per quanto mi riguarda il lavoro di equipe è l’aspetto non solo più importante, ma anche più stimolante della progettazione di uno spettacolo.
- Riporto da una recensione del “Giulietta e Romeo” di Vaccaj dell’estate scorsa a Martina Franca:«sono la trama narrativa per il compiersi della storia con il noto finale tragico della morte dei due amanti. La regia affidata a Cecilia Ligorio ha avuto spunti molto efficaci nei dialoghi fuori scena con fermi immagine laterali suggestivi e resi tridimensionali grazie all’uso sapiente delle luci di Luciano Novelli. I costumi di Giuseppe Palella hanno confermato l’estro creativo e non prevedibile dell’alta sartoria teatrale con richiami rassicuranti verso la tradizione, si pensi alle citazioni da Visconti, e accelerazioni futuristiche soprattutto nel coro, svecchiato da impaludamenti cronologici» Esiste un limite al rimaneggiamento delle trame e delle situazioni delle trame liriche o piuttosto fin dove arriva la ricerca di innovazione ? Quali spazi ti prendi per imprimere il tuo marchio sulla produzione?
Di solito faccio così: all’inizio di un progetto studio da sola. Una volta riconosciuto il punto di partenza, quali sono cioè le cose fondamentali per me da cui iniziare a costruire lo spettacolo (di solito hanno a che vedere con alcune intuizioni sullo spazio , con una o due immagini forti a cui voglio arrivare e con l’andamento dei cambi ritmici della narrazione), do al mio gruppo una trentina di immagini di riferimento che per me hanno a che vedere con l’estetica dello spettacolo. Chiedo loro di rispondermi con altrettante immagini e da lì si parte per stringere i confini del monso estetico entro i quali ci muoveremo. Poi lascio del tempo per iniziare a sviluppare una proposta che risolva le esigenze fondamentali e sulla base di questa proposta inizio a mettere insime i segni, cioè a creare i ponti tra scena costume e costruzione delle azioni di scena. Una volta costruiti tutti pezzi però è solo nella pratica, in prova, sul palco, quando si trovano le giuste misure degli ingredienti. Forse fare regia è ha a che vedere con il lavoro dell’alchimista che per creare l’oro, deve dosare tutti i preziosi elementi insime nel tempo giusto e alla temperatura giusta. Il desiderio è sempre quello di creare uno spettacolo in cui i vari aspetti della messa in scena si incastrino insieme, si accompagnino e si completino.
- Finalmente dopo anni di latitanza cominciano ad riemergere le registe donne, Penso a Nicola Raab, e Deborah Warner ed Emma Dante, nel recente passato Liliana Cavani (tra l’altro non molto amata) e la mitica margherita Wallmann poche tracce. Pensi che ci sia anche una visione femminile su come leggere l’opera lirica?
L’ Opera è piena di storie e personaggi femminili per cui credo che la lettura di una regia femminile possa entrare in questi mondi in maniera assai più specifica. Detto questo, pur considerando fondamentale dare gli stessi spazi e le stesse condizioni a registi uomini e donne, credo che la cosa più importante ancora sia dare spazio a persone davvero preparate, non importa se donne o uomini. Ma non solo dare spazio, ci si dovrebbe prendere più cura delle condizioni di lavoro. Per fare bene serve tempo, e questo vale per entrambe le parti, quella artistica e quella produttiva: Gli artisti spesso dovrebbero dedicare molto tempo per studiare e prepararsi. I teatri spesso dovrebbero dedicare molto più tempo per permettere agli artisti di lavorare bene. Siamo dei privilegiati. Il nostro è un mestiere che costruisce l’effimero. Siamo pagati per giocare al gioco della finzione. Ma questa finzione non è superflua. Il Teatro ha un’importanza politica fondamentale: serve a mantenere allenata l’anima. Questo privilegio va onorato e rispettato sia da chi lo fa che da chi ci chiama a farlo. Ogni opera è per me un esercizio d’amore, quasi erotico: cerco una maniera per abbandonarmici e innamorami. Non mi sarei mai aspettata di dover trovare la maniera di innamorarmi di questa storia! Ma ogni amore è un regalo ed una esperienza che non ammette rifiuto.
Federica Fanizza
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