Roma: un Rigoletto espressionista e intimo
Quello che ieri sera ha inaugurato la stagione 2018/2019 dell’Opera di Roma è il Rigoletto di Daniele Gatti, e lo è a pieno diritto almeno per due motivi: il primo perché a lui il pubblico, dal quale si poteva temere qualche reazione relativamente a ciò che lo ha portato ad essere dimissionato – secondo noi a torto – dalla Concertgebouworkest, ha riservato un’accoglienza calorosa sin dal suo ingresso nella buca orchestrale e che è diventato ovazione alla fine, il secondo sta nella scelta di una lettura dell’opera in chave espressionista che condividiamo completamente.
Nonostante tutto Gatti dirige il preludio con gesto teso, afflitto da una meccanicità che usualmente non gli appartiene ma con cui riesce comunque immediatamente a definire la sua linea interpretativa; già dalla prima scena la bacchetta ritrova la naturalezza elegante e mai affettata che gli conosciamo e la mano sinistra prende a sottolineare le sfumature richieste al palcoscenico.
Il Rigoletto di Gatti vive di atmosfere notturne, raccolte in un’intimità pensosa e malinconica che i tempi sostenuti e la linea melodica, privi di qualunque concessione all’autocompiacimento nel suono “bello”, sottolineano in un racconto rapsodico e coinvolgente. Finalmente il duetto del protagonista con Sparafucile, alla fine del quale tutto è già deciso, è sussurrato, come il “Pari siamo” diviene una meditazione tutta interiore e non un proclama al mondo, esprimendo tutta la verità del personaggio. Così è anche il “Cortigiani “, lamento di un vecchio sconfitto; un capolavoro d’introspezione dove anche il libretto riacquista tutta la sua dignità drammaturgica.
Unico appunto: se si sceglie l’edizione critica – Alleluia! – non si risolve il “Sì vendetta” concedendo a Rigoletto la tradizionale puntatura al La bemolle mentre Gilda scende; è brutto e fuori stile anche se il pubblico sembra gradire.
Roberto Frontali si dimostra protagonista ideale di questo Rigoletto introverso, cesellando ogni singola frase, usando sapientemente le mezzevoci e meditando ogni frase, il tutto a rendere con classe e intelligenza musicale il tormento incessante del buffone.
Non gli è da meno Lisette Oropesa, dalla quale finalmente abbiamo ascoltato un “Caro nome” con una cadenza di rara bellezza e che canta la sua Gilda allontanandosi anni luce dal personaggio scemetto e languoroso che troppo spesso si aggira sulla scena. La voce corre sicura, i centri sono torniti egli acuti risultano luminosi.
Ismael Jordi, cui il pubblico riserva qualche dissenso non del tutto immotivato, è un Duca corretto e musicale, ma troppo incline a languori che si addicono più a Nemorino che non a un potente che abusa della sua condizione.
Convince del tutto lo Sparafucile ferrigno e insinuante, sicario e lenone, di Riccardo Zanellato, forte di una cavata rotonda nei gravi e di una costante espressività.
Bene fa anche Alisa Kolosova, Maddalena rigogliosa nella vocalità e nella sua fisicità prorompente.
Tutte positive le prove dei ruoli di contorno: Irida Dragoti (Giovanna), Carlo Cigni (Monterone), Alessio Verna (Marullo), Saverio Fiore (Borsa), Daniele Massimi (Ceprano), Nicole Brandolini (Contessa di Ceprano), Leo Paul Chiaro (Usciere) e Michela Nardella (Paggio della Duchessa).
Il Coro, diretto da Roberto Gabbiani, dopo un paio di sbandamenti vistosi nel primo atto, si riprende offrendo una prova più che positiva.
Del tutto diversa l’accoglienza riservata alll’altro Daniele in locandina, che all’uscita finale si prende una bordata di fischi memorabile e pienamente meritata.
L’idea di Abbado di trasporre l’azione al tempo della Repubblica di Salò lascia il tempo che trova, con Rigoletto vecchio attore di avanspettacolo a servizio di un Duca che somiglia tanto ad un attore dei “Telefoni bianchi”, forse con un richiamo al debosciato e delinquente Osvaldo Valenti. Poco significano anche i rari ripubblichini in orbace – vestiti, come gli altri personaggi, in maniera non più che discreta, da Livia Sartori e Elisabetta Antico –, così come inutilmente ingombranti risultano le scene di Gianni Carluccio, autore anche del disegno di luci, che sembrerebbero voler richiamare le atmosfere sospese dei quadri di Alberto Savinio, nella loro surreale indefinitezza di elementi architettonici incompiuti e strutture metalliche e che finiscono invece per assomigliare agli scaffali dei magazzini dei noti mobili scandinavi. Non indimenticabili i movimenti coreografici di Simona Bucci.
Di regia neppure l’ombra: tutto resta irrisolto in una serie di piccole partenze tristi che si risolvono in nulla; si sarebbe potuto collocare questo Rigoletto nel Giappone degli Shogun o alla corte di Montezuma e nulla sarebbe cambiato della mortale piattezza che lo affligge.
Alla fine, con il sipario capriccioso che non vuole aprirsi, ovazioni per Gatti, applausi per la compagnia di canto, coro e danzatori. “Buuuh”, non solo dal loggione, per Abbado e collaboratori.
Alessandro Cammarano
(2 dicembre 2018)
La locandina
Direttore | Daniele Gatti |
Regia | Daniele Abbado |
Scene e luci | Gianni Carluccio |
Costumi | Francesca Livia Sartori ed Elisabetta Antico |
Movimenti coreografici | Simona Bucci |
Personaggi e interpreti: | |
Il Duca di Mantova | Ismael Jordi |
Rigoletto | Roberto Frontali |
Gilda | Lisette Oropesa |
Sparafucile | Riccardo Zanellato |
Maddalena | Alisa Kolosova |
Giovanna | Irida Dragoti |
Il Conte di Monterone | Carlo Cigni |
Marullo | Alessio Verna |
Matteo Borsa | Saverio Fiore |
Conte di Ceprano | Daniele Massimi |
La Contessa | Nicole Brandolino |
Usciere di corte | Leo Paul chiaro |
Paggio della Duchessa | Michela Nardella |
Orchestra, coro e corpo di ballo dell’Opera di Roma | |
Maestro del coro | Roberto Gabbiani |
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