Bologna: al Trovatore si addice il Kabuki

Dallo spazio antiteatrale del Farnese di Parma al palcoscenico di un teatro classico; Le trouvère torna ad essere l’originario Trovatore, che Robert Wilson rimonta– per l’inaugurazione di stagione del Teatro Comunale di Bologna – conferendo al tutto un’atmosfera di compiuta intimità, che risalta ancor di più nello spazio concluso della sala del Bibiena.

Spettacolo difficile da raccontare proprio per il suo far leva sulle emozioni più intime di ogni singolo spettatore.
Wilson come sempre, ma qui più e con maggior forza che in altre occasioni, lavora per sottrazione, quasi a “non voler disturbare la musica” e il suo Trovatore maieutico vola alto ancora una volta.

Lo spazio teatrale immaginato da Wilson – con la collaborazione di Nicola Panzer per la regia, Stephanie Engeln per le scene e Solomon Weisbard alle luci – definisce un ambiente di colori primari, nero-bianco-blu-rosso e nelle loro sfumature, con una dominanza di grigio e azzurro ghiaccio, illuminato dal basso a creare un effetto di straniante sospensione.

File di piccoli led segnano il cammino interiore dei personaggi diventando essi stessa musica, come musica divengono le piccole finestre, bianchissime o rosse – a rappresentare il sole e la luna – che si aprono virtualmente sulle pareti.
Wilson non racconta una storia, fa sì che in qualche maniera sia il pubblico a raccontarla a se stesso, attraverso i simboli, i gesti rarefatti che richiamano il teatro Kabuki, che torna anche nei  costumi geometrici di Julia von Leliwa e il trucco elaborato di Manu Halligan.

Una prova di grande teatro alla quale sul palcoscenico assistono una serie di personaggi muti che ora semplicemente osservano, ora interagiscono con la narrazione: un vecchio magrissimo, una donna anziana e corpulenta, una giovane madre e due bambine, tutti vestiti di grigio e posti a rappresentare qualcosa che si avvicina alle diverse età della vita.

Meravigliosa la carrozzina spinta dalla donna anziana durante il racconto di Azucena e che poi ricompare poco più tardi in forma di puro scheletro metallico a sottolineare la perdita del figlio, come spiazzante il rogo che diviene fontana.

Impossibile dar conto di tutto, servirebbero fiumi d’inchiostro e ancora non avremmo detto nulla; non si può però non sottolineare la poesia delle videoproiezioni, realizzate da Tonek Jeziorski, che ci mostrano prima le immagini di una Parma di inizio Novecento sul coro degli zingari, poi un rosso fiamma guizzante e inaspettato sulla ballata di Azucena e infine un uccello bianco in volo in un cielo appena velato di nuvole durante l’aria di de Luna.

I ballabili presenti nella versione francese sono ancora una volta risolti da Wilson in un’esibizione di boxeur – summa di tutti i conflitti presenti nell’opera – ma qui alla musica si sostituisce un’esibizione che vive cadenzata dal suono secco e battente dello Hyōshigi.

Salvo alcune eccezioni la parte musicale è, invece, di tragica bruttezza.

Pinchas Steinberg dirige dividendo il divisibile e, a tratti, anche l’indivisibile, dando vita ad un solfeggio senza soluzione di continuità; poi, a furia di tagliare, riesce a trasformare una quercia in un bonsai tristanzuolo.  Tempi mortiferi ammantano tutto di una coltre polverosa, le dinamiche sono asfittiche, i ritmi slentati, le agogiche inesistenti; l’interazione con il palcoscenico è insufficiente.

Il Manrico di Riccardo Massi, che dalla sua avrebbe un timbro gradevole e bella presenza scenica, si distingue per la disinvoltura nell’uso delle vocali: “RavvEsami ManrEco io sAn”, per fare un esempio tra i vari possibili, non è esattamente bello. Peccato, perché, visti i mezzi, potrebbe fare davvero molto meglio. Speriamo di poterlo riascoltare sotto una più felice bacchetta.

Guanqun Yu, giovane e bolognese d’adozione è invece protagonista di una prova che nel corso della serata si fa via via più convincente. La sua Leonora parte un po’in salita, per trovare poi un bello sviluppo attraverso un’emissione fluida, linea di canto salda e ben colorata e buon fraseggio.

Vasily Ladyuk, giunto dal cast alternativo a prendere il posto dell’ammalato Diego Solari, decide di modellare un Conte di Luna cantato su testi suoi, o così sembra, visto che di quel che dice si capisce pochino. Anche l’intonazione appare a momenti fantasiosa, così come il suo costante mezzoforte risulta fuori di luogo soprattutto nei momenti più intimi e meditativi; il “Balen del suo sorriso” rischia di svegliare di soprassalto tutte le monache del convento.

Brava Nino Surguladze, Azucena ferina, madre primordiale, spirito vendicatore, capace di trovare sempre la giusta forza drammatica.

Ancora una volta convince pienamente il Ferrando di Marco Spotti, poderoso nella cavata grave e rotondo nei centri.

Nei ruoli di contorno si distingue l’Ines ben cantata di Tonia Langella, mentre corretto risulta il Ruiz di Cristiano Olivieri, che canta anche la parte del Messo.  Chiude il cast il vecchio zingaro solenne di Nicolò Donini.

Il Coro, alla cui direzione debuttava Alberto Malazzi, si comporta bene.

Applausi per tutti, anche ai boxeur.

Alessandro Cammarano
(22 gennaio 2018)

La locandina

Direttore Pinchas Steinberg
Regia, scene e luci Robert Wilson
Co-regia Nicola Panzer
Collaboratore alle scene Stephanie Engeln
Collaboratore alle luci Solomon Weisbard
Costumi Julia von Leliwa
Make-up design Manu Halligan
Assistente alla regia Giovanni Firpo
Video design Tonek Jeziorski
Drammaturgia José Enrique Macián
Manrico Riccardo Massi
Leonora Guanqun Yu
Conte di Luna Vasily Ladyuk
Azucena Nino Surguladze
Ferrando Marco Spotti
Ines Tonia Langella
Ruiz/Un messo Cristiano Olivieri
Un vecchio zingaro Nicolò Donini
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Maestro del Coro Alberto Malazzi

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