Ritratto di Vittore Veneziani, la colpa di essere ebreo
Le celebrazioni della Memoria riportano ogni anno alla luce importanti e drammatiche testimonianze, segni indelebili di chi ha subito l’incubo delle leggi razziali. Fra le tante vittime Vittore Veneziani, nome oggi pressoché dimenticato, la cui storia merita di essere conosciuta e il suo valore riconosciuto.
Nato a Ferrara il 25 maggio del 1878, Vittore Veneziani visse un’infanzia serena. Il padre Felice, commerciante di professione e corista per diletto, viste le doti innate del figlio, lo avviò agli sudi musicali, iscrivendolo al conservatorio Girolamo Frescobaldi della sua città.
Da lì a poco si trasferì a studiare composizione al liceo musicale di Bologna sotto la sapiente guida di Giuseppe Martucci, fervente promotore della musica strumentale sinfonica e cameristica. Nonostante la preminente vocazione compositiva, il giovane Veneziani dimostrò fin da subito un certo interesse per il canto corale, tanto che si ritrovava spesso a dirigere dei gruppi vocali costituiti dai suoi compagni di studi.
Appartengono a questi anni le prime composizioni: l’operina I due professori, la Cantata di Calen d’aprile, Il convegno degli spiriti e Adelchi –su testi manzoniani– con cui vinse nel 1901 il primo premio a un concorso indetto dal conservatorio San Pietro a Majella di Napoli.
Particolarmente significativo il connubio artistico coi fratelli Domenico e Gualtiero Tumiati, sui concittadini, il primo scrittore e drammaturgo, il secondo attore e regista, dal quale nacquero quattro melologhi: Badia di Pomposa, Emigranti, La Parisina, La morte di Baiardo. Questi componimenti poetici per voce recitante e orchestra ebbero, tra il 1900 e il 1904, una fortunata stagione in tutta Italia, riscuotendo sempre notevoli successi di pubblico e di critica. La risonanza di queste affascinanti composizioni fu tale che La Parisina venne eseguita anche nel 1902 in forma strettamente privata presso la corte della Regina Margherita a Roma nella riduzione per quartetto col pianoforte, presente in sala anche Antonio Fogazzaro.
Lo stesso melologo fu rappresentato nuovamente nel 1903 nel cortile del castello estense di Ferrara in una serata definita dalle cronache dell’epoca «memorabile». Fra gli ospiti di riguardo: Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio.
Nel 1907 assunse la cattedra di canto corale presso il conservatorio Benedetto Marcello di Venezia su invito dell’allora direttore Ermanno Wolf Ferrari. A quel periodo risale La leggenda del lago, opera lirica su libretto di Guido Pusinich andata in scena nel febbraio del 1911 alla Fenice.
Nel 1913 risulta maestro di coro del teatro Regio di Torino.
Dopo sei anni si trasferì a Bologna dove fondò i «Cantori bolognesi», ensemble vocale di dodici elementi, coi quali affrontò pagine polifoniche del rinascimento italiano, repertorio piuttosto desueto agli inizi del secolo scorso, soprattutto nella penisola del melodramma, dando vita a un’operazione alquanto pionieristica per l’epoca.
Nonostante il carattere schivo e poco mondano, la fama di Veneziani crebbe sempre più, tanto che nell’autunno del 1915 avvenne la prima collaborazione con Arturo Toscanini al teatro Del Verme di Milano. Notate immediatamente la solida preparazione e la seria professionalità di Veneziani, Toscanini lo chiamò nel 1921 a ricoprire l’incarico di direttore del coro del Teatro alla Scala.
Chiunque avrebbe accettato subito un ruolo così prestigioso, ma Veneziani era consapevole che un tale incarico avrebbe comportato la rinuncia all’attività compositiva e l’abbandono dei suoi amati «Cantori bolognesi». La scelta non fu per niente facile per la coscienza di Veneziani, ma alla fine cedette e accolse proposta di Toscanini.
Ebbe così inizio un nuovo e importante capitolo nella vita del maestro ferrarese.
Le stagioni milanesi in quegli anni erano piuttosto nutrite, il cartellone comprendeva autori come Mozart, Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Wagner, Puccini, Musorgskij e i contemporanei Wolf Ferrari, Pizzetti, Rabaud, Giordano, Boito, Alfano, Mascagni, Riccitelli e molti altri autori oggi caduti nell’oblio.
Indimenticate negli annali del teatro meneghino le recite di Boris Godunov e Debora e Jaele, in cui fu particolarmente elogiata la preparazione del coro.
L’idillio scaligero del maestro Veneziani fu interrotto bruscamente nel 1938 quando le leggi raziali vietarono alle persone di confessione ebraica di lavorare alle dipendenze di enti pubblici, aziende statali e parastatali.
Per Veneziani fu un duro colpo e all’indomani del suo licenziamento trovò il suo appartamento invaso di fiori da parte di chi, consapevole del suo valore artistico e umano, volle dimostrargli solidarietà e affetto.
Nonostante ciò non abbandonò la musica e, finché gli fu concesso, si dedicò al coro della Scuola Israelitica di Milano. L’aggravarsi dei drammatici eventi del secondo conflitto mondiale lo costrinse presto ad abbandonare l’Italia e a rifugiarsi nel 1943 a Roveredo nello svizzero Canton Grigioni.
Seppur in esilio Veneziani si rimboccò le maniche dedicandosi ai cori locali, scrivendo per loro nuove pagine e tenendo concerti a beneficio dei rifugiati.
In un articolo commemorativo pubblicato nel 1958 nel periodico «La fiera letteraria», il celebre scrittore e giornalista Guido Lopez, anch’esso rifugiato a Roveredo, descrisse con efficacia lo stato d’animo del maestro all’annuncio della liberazione il 25 aprile del 1945. «Per la prima e l’ultima volta lo vedemmo trasfigurarsi, quasi perdere il controllo di sé: “la Scala, ora bisogna ricostruire la Scala” –mormorava– “che cosa faranno per la Scala?” ripeteva nervoso via via che i giorni scorrevano senza che gli venisse un lasciapassare per Milano. Infine, nel luglio, partì alla volta di Chiasso come un puledro alla prima corsa».
Cosa dev’essere stato per Veneziani, e per tutti coloro che amavano la Scala, vederla sventrata dai bombardamenti. Non è forse nemmeno minimamente possibile immaginare il senso di smarrimento e sgomento di fronte a quelle tragiche immagini.
Ma Milano non si scoraggiò e mentre il sindaco Greppi avviò i lavori di ricostruzione del teatro, al Lirico furono organizzati dei concerti uno dei quali vide il maestro Veneziani dirigere il coro della Scala in un programma che comprendeva pagine di Palestrina, Charles d’Orléans, Debussy, Pizzetti e una serie di canti regionali da lui rielaborati.
L’11 maggio del 1946 Milano non solo celebrava la ricostruzione del Teatro alla Scala, ma anche il ritorno di Arturo Toscanini, di Vittore Veneziani e la rinascita della cultura italiana. Durante il concerto di inaugurazione della Scala ricostruita, Milano si era paralizzata: chi non possedeva una radio si era recato nei bar per ascoltare la diretta, addirittura c’era gente seduta fuori dalle trattorie sui marciapiedi in religioso ascolto.
Da quel giorno la vita riprese il suo corso. Rimasto in servizio alla Scala fino al 1954, il maestro Veneziani, oltre all’impegno in teatro, si dedicò al coro del Tempio ebraico di Milano per il quale scrisse gli splendidi Canti spirituali di Israele.
Milano, riconoscente per l’alto valore artistico, lo insignì della medaglia d’oro ambrosiana.
Ritiratosi nella sua città natale fondò una nuova compagine corale – tutt’ora attiva e a lui dedicata– con la quale tenne numerosi concerti.
Vittore Veneziani si spense a Ferrara il 14 gennaio 1958.
Il suo operato artistico è documentato da diverse incisioni discografiche che lo vedono a capo del coro della Scala e numerose sono le testimonianze scritte che lo ritraggono come un uomo estremamente scrupoloso ed esigente durante le prove, ma al contempo straordinariamente umano. Nonostante il suo noto valore artistico ed etico il maestro Veneziani dovette subire l’ingiusta e terribile l’umiliazione di essere licenziato dal suo incarico alla Scala.
«Mi par di rivederlo, durante le prove» – racconta Guido Lopez – «esplodere in generosi furori per l’entrata intempestiva o sgarbata di un contralto (ma che modi son questi!) per una forzatura dei soprani o dei bassi (che vergogna, signori bassi, che vergogna cantare a questo modo!) ma poi smontarsi da sé, via via placando in brevi gesti il suo sdegno, e infine distendersi, aprirsi in un sorriso che era tutto amore: Via via, mi scusino, su su, avanti, da capo, pianissimo… non si deve quasi sentire… poi crescere a poco a poco… far vivere la nota… vocali chiuse… su, bravi, su… siete tutti bravi, bravissimi!».
Gian Francesco Amoroso
(27 gennaio 2019 – Giornata della Memoria)
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