Adriana a Firenze, Harding dice no alle svenevolezze, ma sì a Cilea

L’Adriana Lecouvreur messa in scena dal Maggio Musicale Fiorentino il 27 aprile sapeva di inaugurazione più dell’effettiva inaugurazione del 26. Non tanto per il repertorio né per gli interpreti, ma proprio per la sala gremita (se così possiamo dire negli appena 500 posti disponibili) e l’atmosfera più calda e serena rispetto al 26. Forse anche grazie a quel concerto, che ha rotto il ghiaccio con un pubblico finalmente ritrovato. Fatto sta che con gran gioia ci siamo ritrovati in sala (per la seconda sera di fila, incredibile!) con la curiosità di vedere cosa ci riservava la serata.

L’Adriana Lecouvreur del Maggio era attesa soprattutto per una ragione, la più peculiare: la direzione di Daniel Harding. Autodefinitosi un semplice “viaggiatore” nel repertorio otto- novecentesco italiano, ad Harding vorremmo in realtà chiedere di fermarsi gentilmente almeno per un caffè. La sua Adriana è superlativa per l’equilibrio con cui il direttore inglese contrappone slanci ad estatiche contemplazioni timbriche, gesti intensi e patetici (ma mai stucchevolmente retorici) a splendidi momenti di tenera intimità. E l’orchestra lo segue e suona, eccome se suona. L’impasto omogeneo, gli splendidi fraseggi, l’attenzione al gesto, tutto tradiva nell’Orchestra del Maggio una reale gioia nel trovarsi a far musica con Harding, di nuovo in sala e di nuovo su un repertorio meno esposto del temibile Stravinskij affrontato la sera prima con Daniele Gatti. Certo, su alcuni aspetti si raggiungeva un limite, c’erano alcune preziosità timbriche che si potevano trovare, alcuni dettagli, alcune rifiniture da curare ulteriormente, ma d’altronde è anche a questo che servono le repliche. Tra le cose più notevoli di Harding, comunque, c’è sicuramente l’abilità nel non scadere mai in una svenevolezza di maniera, ma al contempo non precludersi grandi crescendo, improvvisi pianissimo e tutte quelle altre tecniche da lacrimuccia che ti scappano appena non guardi e scadono subito. Bene anche la conduzione con cast e coro, un insieme decisamente solido e ben funzionante, anche se la buca aperta causa covid e una certa irruenza del direttore hanno più volte sbarrato la via ai cantanti, forzati ad una spinta che poteva essere un po’ evitata trattenendo l’orchestra per darle poi finalmente sfogo quando le lascia il totale dominio del suo universo di colori perfettamente orchestrato.

A ricoprire il ruolo di protagonista assoluta è stata Maria Josè Siri. Piuttosto solida ha dato una buona lettura, anche se, soprattutto nel primo atto, era evidente la divergenza di intenzioni con Harding. Laddove Harding scava in colori, riflessi e suggestioni, Siri ha sganciato un bel piglio drammatico, un po’ schiacciato verso il forte ma ben morbido e rotondo, che causava un interessante contrasto. Tutto il cast in realtà si è trovato ad andare in una propria direzione. Quello più vicino all’orchestra di Harding mi è sembrato Nicola Alaimo, complice anche il ruolo forse più umano dell’intera vicenda, il fedele amico e guida Michonnet, drammaticamente costretto (questa sì, una tragedia) in una friendzone senza scampo. Alaimo ha condotto con sapienza il suo ruolo e, senza far tante smorfie, ha restituito un ritratto veramente vivo del povero direttore di scena, solido, ben centrato e ben cantato. Ksenia Dudnikova ha dipinto la sua Principessa di Bouillon con qualche interessante picco di tagliente aggressività, senza esasperarla ma con molta forza. Forse sarebbe servita un’identificazione più chiara del personaggio, una lettura più sfaccettata, ma ora c’arriviamo. Molto bene Alessandro Spina nei panni del Principe di Bouillon e ancor meglio l’Abate di Chazeuil interpretato da Paolo Antognetti, che ha ben caratterizzato la superficiale leziosità del personaggio senza trasformarlo in una insostenibile macchietta. Bene anche Valentina Corò, Chiara Mogini, Davide Piva e Antonio Garès. Non convince invece Martin Mühle nei panni di Maurizio: il tenore tedesco-brasiliano, complice forse l’emozione, si è trovato tanto, troppo spesso a spingere anche quando l’orchestra di Harding gli lasciava ampio spazio per trovare diverse sfumature, oltre ad essersi fin troppo appoggiato ai generosi portamenti per aggiustarsi di intonazione qui e lì, di nuovo sprofondando in un canto di maniera che sarebbe potuto stare bene in un’interpretazione strasalottiera a tutto tondo, ma faceva a cazzotti con gli altri. Insomma, una serie di spinte centrifughe che l’Adriana di Cilea non sembra giustificare musicalmente e drammaturgicamente e che andrebbero un po’ riassorbite per migliorare ancora quello slancio in avanti che questo già spettacolo possiede.

E parlando di spettacolo, molto bene le scene di Polina Liefers, i costumi di Julia Katharina Berndt e le luci di Marco Faustini. Il regista Frederic Wake-Walker è saltato su un treno in corsa per curare la regia di uno spettacolo già in parte concepito ed è riuscito nel complesso compito. La sua Adriana è stata piuttosto sobriamente condotta, con alcuni punti di splendida intensità ben in accordo con la parte musicale (ad esempio il grandioso finale del terzo atto), qualche scelta un po’ banale e soprattutto qualche dettaglio un po’ goffamente concluso, come se mancassero le rifiniture di alcune scelte tutto sommato efficaci. Si prenda per esempio il finale, con Adriana che, morta stecchita ma zampettante come nei migliori film di zombie, si dirige platealmente verso la luce, continuando a camminare anche dopo aver superato il faro e senza trovare un punto di intesa con la conclusione orchestrale. Similmente altri punti, in cui alcune buone idee apparivano più abbozzate che condotte meticolosamente fino in fondo, ad esempio i movimenti di scena, impacciati dall’impossibilità di toccarsi (sarà il covid? Eppure agli applausi erano tutti lì con baci e abbracci), con seguenti figure ferme impettite, senza quelle sfumature che tanto meglio avrebbero delineato i diversi caratteri e magari uniformato maggiormente le interpretazioni. Ben risolta invece la presenza del balletto nel terzo atto, rimasuglio da Grand opéra e al contempo stilizzato richiamo settecentesco (Harding ci sente alcune note dello Stravinskij che verrà o ero io con la Sinfonia in Do diretta da Gatti il giorno prima ancora in orecchio?). Anche grazie alle coreografie di Anna Olkhovaya ben interpretate da Ferrara, Rombaldoni, Mostacchi, Marino e Zorzoli, si è riusciti ad evitare quella svenevolezza di maniera che Harding ha così ben scansato. Insomma, questa sì è stata una bella spinta centripeta.

Alessandro Tommasi
(27 aprile 2021)

La locandina

Direttore Daniel Harding
Regia Frederic Wake-Walker
Scene Polina Liefers
Costumi Julia Katharina Berndt
Luci Marco Faustini
Coreografia Anna Olkhovaya
Personaggi e interpreti:
Adriana Lecouvreur María José Siri
Maurizio Martin Muehle
La principessa di Bouillon Ksenia Dudnikova
Michonnet Nicola Alaimo
L’abate di Chazeuil Paolo Antognetti
Il principe di Bouillon Alessandro Spina
M.lle Jouvenot Chiara Mogini
M.lle Dangeville Valentina Corò
Quinault Davide Piva
Poisson Antonio Garès
Un maggiordomo Michele Gianquinto
Danzatori Anna Olkhovaya, Chiara Ferrara, Erika Rombaldoni, Giulia Mostacchi, Sebastiano Marino, Matteo Zorzoli
Orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino
Maestro del Coro Lorenzo Fratini

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