Alberto Mattioli “Pazzo per l’opera”
La leggerezza della verità – intendendo i due termini nella loro accezione più alta – è la cifra che caratterizza l’ultima fatica letteraria di Alberto Mattioli che dopo un’appassionata digressione felina torna al suo primo grande amore, tanto grande che se si trovasse a dover scegliere se rinunciare all’opera o ai gatti – sono parole sue – sacrificherebbe gli adorati mici.
“Pazzo per l’opera – Istruzioni per l’abuso del melodramma” (Garzanti, pp. 216) è innanzitutto un atto di fede, un “gattolicesimo” traslato al teatro in musica che assurge a rango di religione.
Ça va sans dire che Mattioli è uno spettatore “critico” – chiediamo venia per il gioco di parole – che guarda, giustamente, gli eccessi del melomani medo con occhio tra il divertito e il compassionevole.
Quasi milleottocento sere all’opera – l’idea dell’autore sicuramente è quella di eguagliare e superare le famose “cinquemila sere” di Rudolph Bing – la frequentazione dei maggior festival europei, da Salisburgo a Bayreuth passado per Pesaro e Martina Franca, sono raccontate in lungo piano sequenza seguendo l’andamento di una rappresentazione divisa equamente fra atti e intervalli.
L’autore, che di fatto è uno degli epigoni fortunati di uno stile che vide primeggiare Alberto Arbasino ma nel quale eccelsero penne del calibro di Orio Vergani e Camilla Cederna, dedica la giusta irrisione ai passatisti – leggasi prefiche del “povero Verdi” e “Puccini si rivolta nella tomba”, e vestali delle regie “tradizionali” e di conseguenza odiatori di qualunque allestimento non preveda parrucche e crinoline “come è scritto sul libretto” – ma lo fa col tono con cui si parla al cugino un po’ scemo che tutti noi abbiamo, in un misto di condiscendenza e pietà.
Gustosissimi gli “intervalli” con il lessico familiare proprio degli operomani e i cento spettacoli amati.
Da incorniciare l’Atto Secondo che porta il titolo “Di cantanti e altre calamità”, dove si tratta dei vociologi ma anche dell’evoluzione del canto e del gusto del pubblico.
Commovente l’omaggio ai mostri sacri capaci di scatenare deliri di folle e pellegrinaggi in luoghi remoti anche solo per vederli da lontano – due su tutti Edita Gruberova e Cecilia Bartoli – e sagace il racconto delle diverse atmosfere festivaliere.
La chiosa è affidata a quattro finali di altrettanti caposaldi che spiegano la forza del teatro in musica inteso come rito collettivo da celebrarsi rigorosamente dal vivo e in presenza.
Ricordi che sono auspicio di un futuro meno opaco del presente da leggere tutto d’un fiato, sorridendo e meditando.
Alessandro Cammarano
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