Alessandra Premoli e la metateatralità di Turandot

Centenario di Puccini: intervista alla regista Alessandra Premoli sul nuovo allestimento di Turandot presso il Teatro Principal di Palma di Maiorca

In occasione del centenario di Giacomo Puccini, abbiamo incontrato la regista Alessandra Premoli che firma una nuova produzione di Turandot in scena il 21, 23, 25 e 27 ottobre presso il Teatro Principal di Palma di Maiorca, sotto la direzione di Giuseppe Finzi; un omaggio metateatrale che esplora le ispirazioni e i temi nascosti dell’opera, puntando al delicato equilibrio tra tradizione e innovazione. Ecco cosa ci ha raccontato.

  • Ci può parlare dell’approccio metateatrale di questa nuova Turandot e dell’omaggio all’opera originale?

Abbiamo deciso di non fare una lettura troppo letterale o modernista di Turandot, ma un omaggio alla sua complessità. Il concept parte dall’ispirazione orientale che ha mosso Puccini nella composizione, con melodie che si rifanno alle scale pentatoniche e temi tradizionali cinesi, come il carillon che apparteneva al Barone Fassini, diplomatico a Pechino, e custodito nella sua villa a Bagni di Lucca. Questo carillon, le cui musiche furono anche registrate dalla Rai negli anni ’70, conteneva temi che Puccini ha immesso nella sua opera, per esempio ripresi nel tema di Turandot e nel coro dei bambini. Creduto perduto, lo abbiamo ritrovato al sicuro conservato in una collezione privata e la sua musica è stata utilizzata all’inizio del nostro spettacolo per ricreare l’atmosfera magica e misteriosa che affascinò lo stesso compositore lucchese.

Il cuore della produzione è un gioco metateatrale: ci ritroviamo all’interno di una gigantesca “scatola musicale”, come se i personaggi fossero imprigionati in un mondo di ingranaggi, un sistema freddo e meccanico che non evolve. Alla fine, saranno proprio le fragilità umane a distruggerlo, restituendo ai personaggi la loro umanità.

  • Come si integra l’impronta orientale, caratteristica principale dell’opera Turandot, in questo contesto?

L’impronta orientale della scenografia è stata mantenuta, soprattutto nella cassa musicale che è chiaramente cinese, e l’estetica è fedele all’originale: ori, sete e colori tipici della tradizione. Abbiamo voluto un allestimento che rispettasse la componente orientalistica dell’opera, ma senza sovraletture. È una Turandot fedele al libretto, con elementi simbolici che raccontano anche la transizione tra il Puccini “classico” e l’opera successiva. Questo si riflette nel finale: utilizziamo il finale integrale di Alfano pensato per marcare il passaggio tra l’opera pucciniana e ciò che è venuto dopo.

  • La favola di Turandot ha ancora risonanza nella società moderna?

Assolutamente. La forza di Turandot è che, in quanto favola, si basa su archetipi che funzionano in ogni epoca e non si presta a letture politiche o sociali troppo stratificate. Più la si analizza, più la sua sostanza sembra sfuggire, e proprio questo alone di mistero la rende così affascinante anche oggi.

Spesso il pubblico tende a dividere i personaggi in buoni e cattivi, vedendo Turandot come una sorta di “villain” e Liù come l’eroina positiva. In realtà, la storia parla di un equilibrio più profondo tra il maschile e il femminile, di una parità intellettuale che Turandot cerca con Calaf. È proprio in questo gioco di ruoli che si trova una delle chiavi più potenti dell’opera, anche se non sempre emerge a una lettura superficiale.

  • Come ha gestito la sfida di realizzare uno spettacolo tradizionale ma con una prospettiva nuova?

La sfida più grande è stata trovare un equilibrio tra tradizione e innovazione, senza fare forzature intellettuali o sovraletture eccessive. Abbiamo lavorato molto sul concept visivo e sulla scenografia, senza mai allontanarci troppo dalle aspettative del pubblico. Le scene sono di Nathalie Deana, mentre Maria Mirò ha curato la ripresa dei costumi storici del repertorio del teatro, ma con dettagli aggiornati per dare un impatto visivo contemporaneo.

Gli ostacoli che abbiamo incontrato sono stati stimolanti e ci hanno spinto a essere più creativi. C’è stato un grande sforzo mnemonico e fisico da parte del cast, che si è adattato perfettamente al concept dello spettacolo. Catherine Foster, ad esempio, ha portato una carica incredibile al ruolo di Turandot, mentre Alejandro Roy ha interpretato un Calaf delicato e amorevole, lontano dall’immagine del tenore eroico tradizionale.

  • Qual è stato il ruolo del nuovo Direttore Artistico, Miquel Martorell, in questo progetto?

Sono stata molto fortunata ad avere il supporto di Miquel Martorell, che ha voluto puntare su un team giovane e coraggioso. C’è stata una vera apertura verso nuove idee e visioni. Anche il cast è stato selezionato con cura, dimostrando grandissimo talento e, soprattutto, ampia disponibilità ed entusiasmo nel lavorare in un contesto creativo diverso.

  • Cosa spera che il pubblico porti a casa da questa Turandot?

Spero che il pubblico colga la magia di Turandot e il suo continuo mistero. Non è un’opera che dà risposte facili, ma che continua a porre domande. Alla fine, il vero omaggio non è tanto alla coppia di Calaf e Turandot, quanto alla forza della musica di Puccini che, dopo un secolo, ci riunisce ancora a teatro per vivere insieme un evento culturale così potente.

Elisabetta Braga

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