Alessio Pizzech e lo sperimentalismo di “Zanetto”
Livornese, classe 1972, Alessio Pizzech approda alla regia d’opera nel 1997 come naturale evoluzione del suo percorso che dal 1991 lo vede impegnato nella direzione di spettacoli di prosa. Il suo debutto al Teatro Filarmonico di Verona segna il ritorno sulla scena del poco frequentato Zanetto di Pietro Mascagni; un’occasione per riscoprire un’opera in cui il verismo cede il passo al simbolismo.
- Il tuo debutto al Filarmonico di Verona avviene con un titolo tutt’altro che scontato, anzi. Il Novecento Storico guarda, sia nell’estetica musicale che in quella teatrale, al Rinascimento. Zanetto è ancora nel Diciannovesimo secolo per un pelo ma con lo sguardo rivolto al futuro; quale sarà il tuo approccio all’atto unico mascagnano?
Il mio approccio è proprio quello di sottolineare lo sperimentalismo dell’atto unico mascagnano, proprio il suo abbandonare un’estetica ottocentesca rassicurante, che ci restituisce personaggi portatori di verità o che rispondono a sistemi valoriali e sociali. Io sottolineo invece l’avvicinarsi a una cultura liberty decadentista dove il sogno e l’onirico si fondono e in cui i personaggi disegnano le proprie identità attraverso una dimensione misteriosa, indicibile, legata a simboli e a sottotesti. Il mio Zanetto trasuda di mondo liberty, di atmosfere dannunziane, di un mondo francese primo novecento, di una dimensione dove il sogno diventa rivelazione, di esperienza del pensiero e del corpo. Un Novecento che lavora su quell’unione tra eros e thanatos, dove l’amore e l’attrazione sensuale diventano un campo di battaglia che dilania l’individuo e impedisce la scelta. Un Novecento dove tutto è sospeso, dove la storia si arresta su quel limite che è rappresentato dall’inconscio in cui il tempo si ferma in uno spazio della memoria alla Bergson dove il presente non esiste perché è sempre passato, il futuro si esaurisce in esso e dove unica certezza è un tempo della memoria che diventa rappresentazione.
- Quanto è complesso immaginare uno spettacolo in tempo di confinamenti – dei quali sembra si veda fortunatamente la fine –, con il pubblico contingentato e tutti i protocolli di sicurezza da applicare sul palcoscenico?
Molto complesso perché la paura del contatto e l’assenza di esso impedisce un canale di comunicazione centrale nel mezzo teatrale. Due corpi che si toccano non solo mutano sé stessi ma cambiano la percezione dello spazio e del tempo. Il contatto è parte esperienziale e biologica dell’essere umano che sente l’energia e la restituisce e di essa si nutre. I protocolli tolgono quella naturalezza dell’atto creativo e la sua spontaneità che è sorgente di idee, ma il teatro è anche capacità di “usare tutto” ed il teatro è come la vita: trasforma tutto e lo digerisce quindi anche il non contatto e la distanza diventano motori di azione scenica perché abbiamo un’altra vicinanza che attraversa l’aria e che crea legami invisibili. Io credo che si tratti di acuire la sensibilità ed ascoltarci di più. Certo poi lavorare con le mascherine, igienizzarsi, ecc… sono atti che affaticano il nostro lavoro e sapere che da un momento all’altro tutto si può fermare è una sensazione non bella, ma dobbiamo essere coraggiosi dare il meglio di noi e avere forza di immaginazione: l’essere umano vince se sa trovare nel pensiero la sua forza, può essere di aiuto e conforto a chi questa forza non sa dove e come trovarla.
- Il teatro è “contatto”, ossia tutto ciò che da più di un anno manca. Come vivi tutto questo a livello personale?
A livello personale il contatto mi manca, il viaggio che esso mi impone. Vorrei essere abbracciato e vorrei abbracciare, baciare ed essere libero di vivere la forza della pelle, della misura del mio confine con gli altri che muta costantemente con le età della vita. Che il confine mi sia dato da una legge mi fa male, è faticoso ma tutto questo ha a che fare con il sentirsi libero e con il comprendere che si può trovare un contatto più forte forse. Devo dire che vedere così tanti occhi, così tanti sguardi dietro alle mascherine, reimparare a osservare, beh è un’esperienza! Voglio essere vicino agli uomini e alle donne che incontrro sul mio cammino e contattarli, cercare la loro storia che spero presto vedrò nei segni del loro volto.
- Completamente diverso il tuo prossimo spettacolo di prosa che andrà in scena il prossimo luglio a Napoli e che nasce dalla rielaborazione del saggio-romanzo di Virginia Woolf Una stanza tutta per sé e che è tutto incentrato sull’invisibilità della donna nella storia. Lavorare su un testo nuovo per il palcoscenico lascia maggiore libertà rispetto ad un’operazione registica su un classico?
Lavorare su un testo teatrale nuovo, scritto nel tempo della tua vita e non portato dal passato fino a noi, ti conforta che il presente può parlarci e si deve essere protagonisti di un processo creativo di progettazione che vede coinvolti il drammaturgo, il compositore delle musiche, lo scenografo, tutti tesi alla creazione e all’immaginazione di quel materiale. Insomma, un lavoro di squadra in cui si ha libertà di dire anche cose sbagliate ma che contribuiranno come un grande stomaco a digerire una creazione che risentirà dei tentavi degli errori, delle intuizioni, delle illuminazioni: di tutto si nutre la scena e la scrittura. Poi il passaggio alla messa in scena in cui il testo nuovamente si modifica nel lavoro dell’attore, nuovamente si riscrive perché la verità è sempre in movimento e la bellezza ancora di più.
- Come immagini il futuro del teatro – in musica e di prosa – da qui a un anno?
Non so e non voglio immaginare perché trovo importante comprendere cosa avviene nel tempo in cui avviene e affrontare senza ottusità o pregiudizi, senza immagini già fatte, il tempo che ci è dato da vivere. So per certo che dovremo combattere per difendere il valore dell’arte dello spettacolo dal vivo, che dovremo lavorare sempre più onestamente e con rispetto per il pubblico e per noi stessi. Debbo dire che questa onestà – questo approccio etico – non corrisponde sempre alla prassi. Il teatro dell’Occidente racconta la crisi di un’idea di società, il teatro ne è lo specchio. Dobbiamo ritrovare gli interlocutori, ritrovare la comunità teatrale che faccia massa critica e sia in grado non solo di attribuirsi diritti e doveri ma che sappia ritrovare in sé stessa anche il germoglio di una nuova vitalità sapendo sempre e comunque di avere un privilegio. Perché costruire uno spettacolo è dare vita a un’utopia.
Alessandro Cammarano
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