Alex Esposito: fra Apollo e Dioniso

Alla vigilia del debutto nel suo primo ruolo verdiano, Pagano nei Lombardi alla Prima Crociata in scena al Teatro Regio di Torino dal prossimo 17 aprile, incontriamo Alex Esposito, interprete fra i più sensibili e intelligenti della scena lirica contemporanea.

  • Pur essendo giovane hai già una carriera decisamente importante. Come sei cambiato negli anni e come questo ha giovato o influenzato negativamente la tua vita di tutti i giorni?

Non mi sono mai fatto gestire la vita dalla carriera ma ho sempre cercato di gestire la mia carriera come parte della vita, facendo questo lavoro con gioia, come un gioco, come un divertimento senza mai però dimenticare la responsabilità che il farlo a certi livelli comporta.  In poche parole cerco di andare alle prove e di salire sul palco per divertirmi e per divertire, un po’ come facevo da piccolo giocando “al teatro”.

  • Quando hai realizzato di poter cantare da bass-baritone?

A dire il vero quasi da subito. Sono stato infatti abbastanza fortunato poiché il mio registro vocale è stato chiaro fin dall’inizio sia a me che ai miei insegnanti o a chi ha gestito i primi passi della mia carriera. Dico fortunato perché ho capito quale fosse la mia voce senza quelle incertezze che purtroppo vedo in alcuni colleghi che nei primi anni non comprendono quale tipo di vocalità o quale timbro si confà loro.

  • La tua carriera parte da Mozart, infatti il Premio Abbiati 2007 ti fu assegnato per una terna di ruoli mozartiani (Papageno alla Fenice, Masetto e Leporello alla Scala). Quanto, secondo te è importante iniziare e soprattutto ritornare di tanto in tanto a Mozart?

Non c’è un modo univoco o universale di iniziare una carriera, molto dipende appunto dal tipo di voce che hai e da quanto sia adatta ad una determinata vocalità. Il lungo trascorso mozartiano e rossiniano mi è servito per il senso del ritmo e soprattutto per l’importanza della parola (considerato l’abbondante uso dei recitativi), per il porgere e per gli accenti, cose molti utili anche nell’approccio a tutto il belcanto o alla vocalità verdiana in questo caso, dove la linea di canto sembra prevalere e se non si mette al centro la parola il rischio è di fare solo dei bellissimi vocalizzi.   

  • Il tuo approccio ad un nuovo personaggio si attiene ad una formula comprovata e sempre uguale o è situazionale?

Non ho una formula comprovata per ogni situazione. Ci sono personaggi che conosco dal mio background culturale e operistico che penso mi piacerebbe cantare prima o poi. Altre volte ascolto i consigli di amici o persone a me vicine, non perdendo però di vista quella conditio sine qua non dalla quale non si può prescindere, infatti mi sono state fatte delle proposte che guardando poi lo spartito non ho potuto accettare per tessitura o per peso vocale non ancora maturo per affrontare un determinato personaggio, o per questioni “di carattere” poiché in scena tendo sempre a portare qualcosa di me e che devo sentire in prima persona prima di dargli vita sul palco.

  • La versatilità che ti è propria ti consente di affrontare ruoli molto diversi tra di loro. Sono più complessi i ruoli brillanti o quelli da vilain?

Sono tutti semplici e tutti complessi, dipende da che punto di vista uno li vuole affrontare. Peppino De Filippo diceva che è più difficile far ridere che far piangere, infatti il ruolo brillante richiede un timing ben preciso dal quale non si può prescindere se si vuol sortire il giusto effetto, non di meno i ruoli vilain sono complessi perché spesso non puoi contare su una gestualità accentuata, sull’espediente comico, ma con una recitazione più “asciutta” e sinistra devi comunque riuscire ad ipnotizzare il pubblico. Penso ad esempio ai vari Méphistophélès o ai 4 diavoli dei “Contes” , in tutti questi casi cerco sempre di guardare ogni faccia della medaglia: come nel comico ricerco il lato malinconico (pirandellianamente parlando), così nel personaggio vilain, soprattutto se estremo, trovo sempre una sfumatura grottesca o addirittura umoristica. Tutto ciò mi è molto utile per variarne la caratterizzazione di volta in volta che ritrovo un determinato personaggio nel corso della mia carriera.

  • Entrando nel dettaglio parliamo un po’ del tuo prossimo debutto nei Lombardi alla Prima Crociata al Teatro regio di Torino. Che emozioni ha suscitato in te il passaggio all’opera verdiana?

I miei primi ascolti operistici sono proprio verdiani, la prima opera che comprai è “Macbeth” e di conseguenza son cresciuto con l’idea che per ‘operona’ all’italiana si intendesse proprio quella verdiana. Quindi sì, sapere di poterla cantare oggi ammetto che mi emoziona molto. Emozione che si rinnova dopo quella vissuta lo scorso settembre quando ho debuttato la “Messa di Requiem” a Modena per il decennale della morte di Luciano Pavarotti. Ma direi che oltre a rinnovarsi si amplifica perché si sa che il palcoscenico fa sempre il suo effetto!

  • Parlando di regie e di allestimenti, la continua lotta tra “moderno” e “tradizionale” può secondo te trovare un punto d’incontro o le due visioni sono destinate a viaggiare su binari paralleli?

Secondo me i concetti di allestimento tradizionale o moderno non esistono più. Dopo molti spettacoli fatti ritengo invece che si possano dividere in interessanti e non interessanti. Un allestimento può essere moderno e tradizionale allo stesso tempo. Porto sempre ad esempio il “Don Giovanni” che Damiano Michieletto ha allestito a La Fenice di Venezia: apparentemente molto classico con costumi d’epoca e scene classicheggianti ma con una freschezza nelle intenzioni, nell’approccio al recitativo, al libretto stesso, alla caratterizzazione dei personaggi così minuziosa e singolare che riesce ad unire entrambe le dimensioni. Un po’ come accade in molti film recenti ‘in costume’, quali ad esempio “Marie Antoinette”, dove l’ambientazione è sì d’epoca ma la narrazione della Coppola è così fresca e moderna che se chiudessimo gli occhi e ascoltassimo la recitazione penseremmo siano ambientati in un contesto estremamente contemporaneo.

  • Ultima domanda, provocatoria: secondo te la voce “verdiana” vagheggiata dai melomani, soprattutto italiani, esiste?

Sì e no. Dal punto di vista della tradizione una volta si preferiva avere un ‘vocione’ importante per l’opera verdiana però allo stesso tempo lo stesso ‘vocione’ lo si amava in Mozart o nel barocco anche se poco si confacevano (oggi sarebbe impensabile ad esempio). Secondo me esistono voci adatte a fare certi ruoli e voci semplicemente non adatte: prendiamo ad esempio gli stessi “Lombardi” dove il ruolo di Pagano è molto acuto, soprattutto nella prima parte, serve quindi assolutamente un bass-baritone che non è proprio il timbro e la vocalità che nell’immaginario comune si associa a Verdi mentre per Roger nella “Jérusalem”, che è un tono più bassa, no. Questo per dire che non esiste una voce verdiana o non verdiana a priori, lo stesso dicasi per mozartiana o non mozartiana, dipende tantissimo da come la si usa e dalla duttilità che la stessa voce ha, Cesare Siepi ad esempio cantava bene sia Don Giovanni che Filippo II fino addirittura a Wotan, a riprova che stigmatizzare le voci sulla base di un preconcetto o categorizzarle basandosi soltanto sulla tradizione porti soltanto ad una sorta di aridità nell’approccio di chi ascolta.

Alessandro Cammarano – Matteo Pozzato

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