Anna Maria Meo: «conoscere è meglio di un semplice “mi piace” o “non mi piace”»
Mancano pochi giorni all’inizio del Festival Verdi 2018, che dall’arrivo di Anna Maria Meo alla Direzione Generale sembra essere rinato, diventando un festival vero, con proposte capaci di attrarre un pubblico cosmopolita ma attento anche agli spettatori “tradizionali”. Abbiamo raggiunto telefonicamente la Meo per porle qualche domanda.
- Con questa edizione il Festival Verdi diventa maggiorenne. Trovo che nelle ultime tre edizioni, che hanno coinciso con il suo ingresso e con uno “snellimento” della struttura organizzativa, il livello delle produzioni sia cresciuto. Qual è il suo parere a riguardo?
La crescita c’è ed è evidente; la struttura precedente era adeguata a quella di un teatro con attività produttiva di ben altre dimensioni. La ristrutturazione ha portato ad una serie di scelte. Nella mia persona sono riunite le funzioni di Direttore, equiparabile a quella del Sovrintendente nel precedente ordinamento e di responsabile della programmazione. Al momento, con l’attuale programmazione direi che siamo sottodimensionati; la produzione è cresciuta esponenzialmente, passando da un titolo a quattro per il Festival più quattro della Stagione d’Opera, Concerti e Danza a cui si aggiunge quella per le scuole e le famiglie. Seguo personalmente anche il lavoro di fundraising, grazie al quale oggi il Teatro può contare su entrate da privati per oltre tre milioni. Puntiamo moltissimo sulla promozione internazionale; negli ultimi due anni abbiamo realizzato venticinque presentazioni internazionali di grande successo che hanno contribuito a incrementare il pubblico permettendoci di avere oggi due terzi del pubblico proveniente da fuori Parma. Abbiamo ricostruito i rapporti con alcuni dei maggiori tour operator internazionali, annunciando con ampio anticipo la programmazione: il primo giorno del Festival in corso vengono presentati titoli e date del successivo, con biglietti già in vendita.
- Negli scorsi tre anni, con una evidente conferma per quello in corso, appare evidente il raggiungimento dell’obbiettivo primo di un festival monografico, sia sul versante dei titoli che su quello filologico/musicologico. Come si è raggiunto questo obbiettivo?
Nel febbraio del 2017 si è costituito il Comitato Scientifico, presieduto da Francesco Izzo, allo scopo di dare evidenza a un percorso filologico per prevede per l’adozione e l’esecuzione delle edizioni critiche del catalogo verdiano, con la collaborazione di Casa Ricordi e della Oxford University Press. Il percorso è lungo e non sempre facile, anche perché non sarà possibile realizzare edizioni critiche di alcune delle opere, Aida in primis, finché non sarà consultabile quell’immenso tesoro costituito dai documenti custoditi nei “bauli verdiani”.
Il dato interessante è che pubblico e critica stanno dimostrando maggior interesse nei titoli meno rappresentati e nelle versioni alternative, quelle francesi ad esempio.
Nello stesso tempo a questa scelta rigorosa dal punto di vista scientifico e musicologico si è deciso di affiancare una certa libertà alla regia, legando ciascuno degli spazi teatrali del Festival ad una specifica vocazione. Al Regio allestimenti prettamente teatrali, al Farnese si dà dato spazio all’innovazione e alla sperimentazione, mentre Busseto è riservato ai giovani, sostenuti nel loro percorso di inizio carriera da basi solide, prima fra tutte l’Orchestra del Teatro Comunale di Bologna.
- L’uso del Teatro Farnese mi è parsa da subito una meravigliosa sfida. Quanto è difficile fare teatro in uno spazio che, paradossalmente, è antiteatrale?
È enormemente difficile, direi al limite della follia. Il Farnese ha una fisionomia propria e imprescindibile, con problemi di dimensioni, enormi, e conseguentemente di acustica. A questo si aggiungono le problematiche legate alla sicurezza, alla tutela del bene e alla logistica, intesa come camerini, spazi di servizio, eccetera. I titoli programmati al Farnese hanno visto lo spazio diventare protagonista e non mero contenitore, questo incredibile bene monumentale ha goduto degli effetti della grande campagna promozionale che il Festival mette in atto ogni anno e ha dato un contributo straordinario al successo del progetto Festivaliero. I tre registi che si sono susseguiti ne hanno valorizzato ciascuno una diversa peculiarità, evidentemente la più vicina al loro sentire per interpretare lo spazio. Peter Greenaway, con la Giovanna d’Arco, ha usato la prospettiva delle gradinate come scenografia naturale, Graham Vick, nel suo Stiffelio itinerante, l’apertura degli spazi; quest’anno Bob Wilson ha scelto di rappresentare Le Trouvère sul palcoscenico. A nessuno dei tre è stato detto come agire; ciascuno di loro ha scelto la propria lettura dello spazio. Non dimentichiamo anche il Prometeo di Luigi Nono, che ha visto lo spazio interagire in forma ancora differente.
- Quello di Parma è un pubblico storicamente “tradizionale”. Come ha reagito a questi cambiamenti?
Bisogna decidere se si vuole nutrire la tradizione e l’autoreferenzialità o se invece non sia più interessante costruire un rapporto diverso con questo pubblico.
Bisogna fare un’operazione di educazione e di stimolo partendo da un approccio costruttivo, spiegando con pazienza, promuovendo incontri presso le diverse associazioni, facendo comprendere che conoscere è meglio di un semplice “mi piace” o “non mi piace”; il non farlo sarebbe mancare un obbiettivo: quello di contribuire alla crescita culturale della comunità di riferimento. Faccio un esempio: Stiffelio è stato oggetto di una serie di “attacchi preventivi”, tanto da farmi decidere di programmarlo fuori abbonamento; alla fine i loggionisti sono venuti ugualmente acquistando un il biglietto, anche una signora che ha assistito allo spettacolo senza dirlo al marito particolarmente critico e pentito poi di non averlo visto tanto da chiedere se per caso non lo si sarebbe riproposto in futuro, e lo hanno apprezzato: si sono lasciati trasportare dall’emozione straordinaria di questo spettacolo unico.
- Ultima domanda. Il Leitmotiv del Festival 2018 è il Soprannaturale. Si sceglie il tema e poi si pensa ai titoli o viceversa?
Sarò sincera. Credevo di poter partire dal tema, ma non è stato sempre possibile perché ci sono troppi vincoli: l’edizione critica, il rischio di riproporre gli stessi titoli a distanza troppo ravvicinata, la stessa natura monografica del Festival. Si è dunque partiti dai titoli e alla fine, anche con un pizzico di fortuna, il filo conduttore si è materializzato.
Alessandro Cammarano
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