Bergamo: Zoraida di Granata, scoperta da ricoprire
“Non tutte le ciambelle riescono col buco” e in questa occasione il vecchio adagio popolare si attaglia perfettamente all’allestimento della Zoraida di Granata, terzo titolo proposto dal Donizetti Opera 2024, rivelatosi il meno risolto del cartellone.
L’opera – rappresentata per la prima volta nel 1822 al teatro Argentina e poi, rivista, nel 1824 nel medesimo teatro romano – segnò il primo grande successo per il compositore venticinquenne e tuttavia rimane ancora saldamente legata alle influenze rossiniane dei suoi primi lavori, nonostante vi si intuiscano a tratti gli elementi che caratterizzeranno la produzione successiva.
Zoraida, dunque, non è da annoverarsi tra i capolavori nel catalogo del Bergamasco, peccando in eccessiva lunghezza – tre ore e venti di musica non sempre concludente – e farraggine di trama tale da non reggere neppur lontanamente il precedente costituito da Les Abencerages, stesso soggetto messo in musica da Cherubini solo nove anni prima.
La versione scelta dal festival orobico è quella del 1824, mantenendo fede al progetto #donizetti200 che si propone di portare in scena ogni anno un’opera a due secoli esatti dalla sua prima rappresentazione.
Il regista Bruno Ravella sposta l’azione dalla Granada della fine del Quattrocento alla Serajevo del secolo scorso e più precisamente tra le rovine della Biblioteca Nazionale – costruita in nome di un ecumenismo culturale cristiano-islamico – distrutta durante la guerra serbo-bosniaca del 1992 e qui ricreata dalla scenografia complessa di Gary McCann, autore anche dei discutibili costumi.
L’idea però non regge e tutto procede stancamente scandito da un déja-vu fatto di soldati in tuta mimetica e mitra, cappottoni, e abiti femminili di terital, a cui si aggiunge l’immancabile “doppio” qui sottoforma di una donna anziana – lo spirito della biblioteca? – che a tratti ricalca i movimenti della protagonista.
La noia dell’allestimento trova ulteriore amplificazione nella direzione catatonica di Alberto Zanardi – complice anche l’Orchestra Gli Originali – nella quale i tempi sfibrati e una certa qual disattenzione al palcoscenico la fanno da padroni, il tutto a mettere ancor più in evidenza la qualità non esaltante della partitura.
Più ombre che luci anche sul cast – per altro applauditissimo – a cominciare dalla Zoraida di Zuzana Marková, potente e precisa ma lontana dal Belcanto.
Complessivamente positiva la prova di Cecilia Molinari, capace di interpretare con bella proprietà di fraseggio il personaggio en travesti di Abenamet – affidato invece ad un tenore nella versione del 1822 – risultando perfettamente credibile.
Konu Kim è un Almuzir sempre sopra le righe, con un’ira di Dio di voce usata con assai poco senno interpretativo, mentre Tuty Hernàndez è Almanzor corretto.
Bravo Valerio Morelli, allievo della Bottega Donizetti e interprete di Alì Zegri, il quale ha doti vocali di gran pregio ma che – ci permettiamo di dargli un consiglio – dovrebbe evitare, per il suo bene, qualsiasi tentativo di imitare Samuel Ramey.
Completano il cast la brava Lilla Takács come Ines e i quattro figuranti Giorgio Maffeis, Samuele Migone, Nadia Mentasti, Matilde Piantoni.
Ottimo, come sempre il Coro dell’Accademia del Teatro alla Scala preparato da Salvo Sgrò.
Pubblico soddisfatto e plaudente.
Alessandro Cammarano
(24 novembre 2024)
La locandina
Direttore | Alberto Zanardi |
Regia | Bruno Ravella |
Scene e costumi | Gary McCann |
Luci | Daniele Naldi |
Maestro alle armi | Carmine De Amicis |
Personaggi e interpreti: | |
Almuzir | Konu Kim |
Zoraida | Zuzana Marková |
Abenamet | Cecilia Molinari |
Almanzor | Tuty Hernàndez |
Ines | Lilla Takács |
Alì Zegri | Valerio Morelli* |
Figuranti | Giorgio Maffeis, Samuele Migone, Nadia Mentasti, Matilde Piantoni |
Orchestra Gli Originali | |
Coro dell’Accademia Teatro alla Scala | |
Maestro del Coro | Salvo Sgrò |
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