Berlino: Fiordi assonnati e salmoni allucinati
Con questa recensione si inaugura un piccolo approfondimento sulla Staatsoper Unter den Linden di Berlino che uscirà su Le Salon nei prossimi giorni. In una Germania che vede la situazione sempre più preoccupante, la capitale tedesca regge ancora e offre al suo pubblico una sala a capienza piena, pur senza riuscire a riempirla. Nei tre giorni di opera cui ho assistito, nessuna recita a riempire il teatro, nemmeno Lohengrin. Con queste premesse, si può ben comprendere come la terza recita di Sleepless, l’ultima opera di Peter Eötvös data in prima assoluta il 28 novembre, avesse quasi un distanziamento sociale de facto.
Pochi ma buoni, verrebbe da dire, visto l’entusiasmo con cui il pubblico ha accolto l’opera il 3 dicembre. E sicuramente possiamo parlare abbastanza serenamente di un buon successo. L’opera dura all’incirca due ore e un quarto e vede il libretto di Mari Mezei costruire tutta la vicenda sul primo dei tre brevi romanzi che compongono la Trilogia di Jon Fosse, romanziere e drammaturgo norvegese. La Norvegia è dunque lo sfondo di questa “opera ballad” che respira le atmosfere salmastre nei fiordi e l’odore del pesce appena pescato nel mare del nord. E infatti a capeggiare sul palco è un enorme, meraviglioso salmone, che costituisce di fatto l’unica scenografia. Lungi dall’essere un limite, questo: il salmone è tutto, diventa una montagna da scalare, le branchie si trasformano in porte, all’interno le lische costruiscono le strutture di bar, salotti e cucine, gli occhi si illuminano di un inquietantissimo rosso o di un accecante bianco e la bocca si trasforma in uno scrigno. Non posso nascondere la mia ammirazione per il lavoro fatto dal regista Kornél Mundruczó e la scenografa e costumista Monika Pormale.
Perché questo salmone è così importante? La Norvegia è uno sfondo obbligato per Sleepless, che fa del primo capitolo di Fosse una vera e propria grande ballata lirica. L’orchestrazione di Eötvös è superba e guidata con gesto sicuro dal compositore, in buca con l’orchestra, nel creare sonorità diafane, impalpabili, rivoli ghiacciati, fredde foreste, il vento immobile che scuote una vicenda angosciante e tesa. Asle e Alida sono due emarginati, che vengono cacciati di casa (una rimessa per barche, in realtà) mentre lei, Alida, è incinta. Senza lavoro, senza soldi, senza supporto, ogni persona cui si rivolgono alla ricerca di aiuto gira loro le spalle. In questo contesto nasce, come immediata e spontanea reazione, la violenza. Asle uccide il proprietario che li ha cacciati, uccide persino la madre di Alida che rifiuta loro il suo aiuto, depredano la casa di ciò che possono prendere e fuggono verso Bjørgvin, città che conosciamo più facilmente con il nome di Bergen. Qui i due cercano di ricostruirsi una vita, ma la situazione è sempre la stessa, ogni porta cui bussano per chiedere asilo anche solo per una notte, sotto l’impietosa pioggia di un freddo inverno, viene serrata di fronte ai due emarginati e incuranti della condizione di Alida. Al rifiuto di ospitarli anche da parte di una vecchia signora, la violenza sorge di nuovo, naturale come un’infezione su una ferita slabbrata. Asle uccide la signora e i due prendono possesso della casa. Alida nel mentre partorisce, ma Asle, faticando sempre a trovare lavoro e ossessionato da qualcosa o qualcuno che li starebbe inseguendo, spinge per ripartire ancora, in fretta. La ragazza si oppone e così firma la condanna a morte del suo compagno che, arrivata a Bjørgvin la notizia degli omicidi e notata l’assenza della vecchia, viene identificato e impiccato sulla pubblica piazza, schernito da quegli stessi gruppi di ubriachi che prima gli rifiutavano ogni supporto. Alida viene salvata da Asleik, un vecchio amico della madre che la riconosce e le offre di riportarla nel loro paese, comunicandole la morte di Asle. L’opera si conclude, con vero tono di ballata, con il racconto di Alida, molti anni più tardi. Ha sposato il vecchio Asleik per garantire al figlio un futuro. Figlio che, partito un giorno di casa, non tornerà più a casa. Ora, molto più anziana e pronta ad andarsene, Alida si getta nel mare, che la inghiotte e la ricongiunge finalmente con il suo amato Asle.
Dalla lettura della trama possono forse emergere già alcuni punti di forza e di debolezza. Vi sono elementi ricorrenti, che danno una circolarità di materiali. Asle è un violinista, ha ereditato il violino dal padre e pur avendo venduto lo strumento, trasmetterà inconsapevolmente questa eredità al figlio. Elementi di spigliata musica popolare animano l’orchestra quando Asle si permette, in rari momenti, di suonare o di pensare alla musica. Per il resto, però, la vicenda è ossessiva e ossessionata, Asle la attraversa come in uno stato di trance, senza riuscire a dormire, senza mai riposarsi. Da qui anche il nome dell’opera, Sleepless. Per permettere ad Alida di riposarsi, Asle si priva del sonno, in una spirale di tensione che ne appesantisce sempre di più l’animo, fiaccandolo. La musica si costruisce fedelmente intorno a questa idea, ma l’effetto è di una certa monotonia, in un costante tono allucinato che attraversa tutte le oltre due ore di materiale. Non che l’effetto sia noioso, sia ben chiaro: Sleepless scorre benissimo e giunti alla fine del primo atto ci si stupisce di essere in teatro da più di un’ora e mezza. Se l’esperienza è immersiva, però, non si può dire che emotivamente funzioni altrettanto bene. La trama è lunga, troppo lunga, le vicende scorrono forsennatamente sul palco. Sicuramente questo aspetto è desiderato e riuscito, ma l’effetto è di una fondamentale noncuranza di quello che accade. I primi omicidi arrivano dopo pochi minuti, i personaggi non arrivano mai ad una caratterizzazione psicologica veramente approfondita, la musica dipinge atmosfere ma scava meno nei loro umori, le cose succedono perché devono succedere, ma le osservi come un esterno, senza empatia. Anche questo è sicuramente voluto, proprio per quel tono di ballada epica di cui parlavo, ma non nego che ogni tanto una minore superficialità mi sarebbe servita. Ne è un esempio l’esecuzione di Asle, che accade un po’ en passant e non viene valorizzata anche dalla regia che ci fa calare sopra una buffa nuvoletta.
Il cast funziona tutto: Victoria Randem è un’ottima Alida, Linard Vrielnik un ottimo Asle. I due interagiscono benissimo, sono disinvolti sul palco, riescono a rendere una l’innocenza ingenua di Alida, l’altro il nervosismo di un ragazzo troppo presto gettato nella vita senza rete. Vocalmente ottimi, si confrontano con gli ampi salti e il teso declamato senza mai avere segni di cedimento o stanchezza, nonostante i due ruoli cantino fondamentalmente per l’intera durata dell’opera. Meravigliosa Katharina Kammerloher, che interpreta la madre di Alida e ne dipinge tanto con l’ottima recitazione quanto con la vocalità instabile e fremente i problemi psicologici, la depressione e la dipendenza dai farmaci mentre osserva passiva la televisione accesa. L’avrei voluta vedere di più sul palco, ma appunto la vicenda scorre così in fretta che ai personaggi non restano che pochi minuti per potersi imporre. La vecchia di Hanna Schwarz fa il suo dovere di vecchia, con voce aspra e delusa dalla vita, mentre Sarah Defrise è una ragazza (personaggio secondario che compare a Bergen) capace di seguire benissimo i virtuosismi richiesti un po’ gratuitamente alla parte dal compositore. Molto bene anche il locandiere di Jan Martiník, “l’uomo in nero” (che riconosce e condanna a morte Asle) di Tómas Tómasson, il barcaiolo di Roman Trekel, il gioielliere di Siyabonga Maqungo e il citato Asleik di Arttu Kataja.
Non ho potuto qui riassumere l’intera trama, ancora più lunga, ma il gran numero di personaggi fa comprendere la dispersività che questa rischia di avere, anche per la scelta di trarla da un romanzo che chiaramente segue altre logiche rispetto agli stringati tempi di un’opera.
Vera protagonista della serata, comunque, è la Staatskapelle Berlin, l’orchestra dell’Unter den Linden, che si conferma un’orchestra semplicemente meravigliosa per precisione, flessibilità e colore. Eötvös riesce a trarne ogni piccolo mutamento di colore, mentre gli elementi tematici, il gioco di relazioni tonali e l’intera struttura musicale emergono sempre in chiarezza nella filigrana dell’orchestrazione, senza mai sovrastare le voci, ma senza mai trasformarsi in un accompagnamento al declamato scenico.
Come scrivevo in apertura, non molto pubblico (anche se questo difficilmente si può ascrivere alla musica, come vedremo anche per le prossime recensioni berlinesi) ma estremamente entusiasta. Urla e applausi scroscianti per tutti, in primo luogo per il compositore. Ma io avrei fatto un applauso pure a palco vuoto, per le splendide scene e il magnifico salmone di Monika Pormale.
Alessandro Tommasi
(3 dicembre 2021)
La locandina
Direttore | Maxime Pascal |
Regia | Kornél Mundruczó |
Scene e costume | Monika Pormale |
Luci | Felice Ross |
Drammaturgia | Jana Beckmann , Kata Wéber |
Personaggi e interpreti: | |
Alida | Victoria Randem |
Asle | Linard Vrielink |
Mother, Midwife | Katharina Kammerloher |
Old Woman | Hanna Schwarz |
Girl | Sarah Defrise |
Innkeeper | Jan Martiník |
Man in black | Tómas Tómasson |
Boatman | Roman Trekel |
Jeweler | Siyabonga Maqungo |
Asleik | Arttu Kataja |
Sextette | Samantha Britt , Alexandra Ionis , Rowan Hellier , Kristín Anna Guðmundsdóttir , Kirsten-Josefine Grützmacher , Alexandra Yangel , Matthew Peña , Sotiris Charalampous , Fermin Basterra , Jaka Mihelač , Rory Green , Jonas Böhm |
Staatskapelle Berlin |
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