Bologna: L’Olandese pagante ovvero redenzione per mezzo della proiezione
“Erlösung durch Liebe” come da programma wagneriano nel 1843, quando Der fliegende Holländer debuttò a Dresda con l’etichetta ufficiale di “opera romantica in tre quadri”? Controprova: la sua natura di opera a numeri chiusi, in cui si possono riconoscere agevolmente i livelli di recitativo, ballata strofica, aria, duetto, terzetto e grande scena corale con pertichini. Eppure il regista Paul Curran mostra di essere più interessato ad altro. Lo si era già notato nel 2019 con il suo allestimento per il Maggio Fiorentino, quando le note di regia affermavano a chiare lettere: “Forse molto più affascinante da un punto di vista contemporaneo è la rappresentazione di un personaggio [l’Olandese] che cerca la redenzione non solo attraverso l’amore, ma anche attraverso un’analisi delle proprie azioni e decisioni”. E naturalmente: “Senta è, per me, un’antesignana del femminismo nella letteratura operistica”, ecc. Per carità, ognuno ha diritto alla sua fetta di Zeitgeist; impegnamoci pure ad essere contemporanei (il che equivarrebbe ad un impegno delle mucche del Wisconsin ad avere la coda).
Più che della soggettiva visione del regista scozzese, formulata con prudenza e nemmeno troppo “provocante” alla luce degli andazzi correnti, la cronaca dell’odierno allestimento è chiamata a dar conto del modo in cui egli è riuscito a destreggiarsi nella selva di sfide che gli poneva l’EuropAuditorium, sede di provvisoria transizione fra la storica bomboniera del Bibiena e il padiglione fieristico ormai in avanzata fase di riconversione. Una sala non vocata ad usi operistici, con ampia platea di 1700 posti uniformemente degradanti, palcoscenico lunghissimo ma stretto e poco profondo, niente graticcio né ponti. Soluzione obbligata per aggiungere profondità e concentrare il fuoco visivo: proiezioni e retroproiezioni su megaschermo, luci psichideliche, visioni oniriche talvolta ai confini dell’horror movie o del videogioco.
Nel primo atto il pubblico si trova sbalzato in piena tempesta nella compagnia di marinai in impermeabile giallo impegnati a lottare contro la furia degli elementi (assai efficace l’effetto empatico). I marinai ricompaiono nel terz’atto, questa volta su un fronte di porto industriale e nello sciatto abbigliamento casual della nostra quotidianità: si balla, si fa merenda e si amoreggia finché la spettrale ciurma dell’Olandese non interviene a guastare del tutto la festa e le condizioni meteo. Anche qui la linea narrativa emerge senza danni.
Ma c’è un problema nell’atto centrale, dove sul panorama di un laboratorio tessile attrezzato con macchinario hi-tech e operato da sartine svogliate incombe il presunto ritratto del bleicher Mann, quell’icona dal volto pallido e disperato che scatena in Senta la fatale sequenza di fissazione, premonizione e agnizione. Se la regia sceglie di incarnarlo in una gigantografia del celebre Wanderer di Caspar David Friedrich (che allo spettatore rivolge le romantiche terga e non il viso) sarà decostruzione o banale refuso?
Dettagli a parte, si dia atto a Curran che nelle condizioni date la sua strategia si è rivelata pagante: questo Olandese cinematografico all’insegna del pop fantasy ha raccolto le ovazioni del pubblico giovanile o giovanilista, e solo qualche sporadico dissenso tra le file dei “wagneriani perfetti” di rito felsineo antico e accettato.
Sul fronte musicale il maggior credito per il successo va ad Oksana Lyniv, la nuova direttrice musicale della Fondazione bolognese qui esordiente in un titolo da lei già diretto per due stagioni consecutive al Festival di Bayreuth. Alle prese con un’acustica asciutta e una buca orchestrale dove gli strumentisti avevano spazio sufficiente a ballare il valzer, ha riposizionato i gruppi mirando più a distinguerli che non a fonderli nell’illusionistica prospettiva di un “golfo mistico” di wagneriana osservanza. La sua direzione analitica, fiammeggiante di energia fisica nel gesto, esaltava con pregevole effetto didattico i corsi e ricorsi dei Leitmotive, senza peraltro umiliare le parentesi liriche e belcantistiche ancora presenti in una partitura di transizione verso la melodia infinita e l’armonia cromatica del Wagner DOC. L’orchestra di casa rispondeva puntualmente alle intenzioni del podio; altrettanto dicasi per il coro, anzi per i due cori schierati nel finale con sorprendente enfasi sulla spazialità: i Norvegesi alla ribalta e gli Olandesi fantasma a fondo sala.
Fra i solisti l’applausometro finale segnava il massimo per Sonja Šarić (Senta) e per Paolo Antognetti (il Timoniere); probabilmente non a caso perché un pubblico italiano non può fare a meno di apprezzare voci ben timbrate, continuità della linea melodica, fine tornitura del legato. Buon terzo nella stessa lega Alexander Schulz (Erik), non fosse per una certa brevità di respiro che talora intorbidava i finali di frase dopo le più veementi esternazioni passionali prescritte dal ruolo. Nel duo dei maschi alfa si sarebbe apprezzata una più netta differenziazione fra l’Olandese di Anton Keremidtchiev e il Daland di Goran Jurić; entrambi dotati di competente dizione tedesca ad onta della comune origine slava, autorevole presenza scenica, brunito metallo vocale e tecnica rocciosa, ma nel secondo un po’ a discapito di un autentico profilo drammaturgico di mezzo carattere sempre in bilico fra il padre affettuoso e l’avido affarista. Note di merito anche per il cammeo di Frau Mary, il mezzo pietroburghese Marina Ogii che ci si augura di riascoltare in ruoli di maggior impegno.
Carlo Vitali
(1º febbraio 2023)
La locandina
Direttrice | Oksana Lyniv |
Regia | Paul Curran |
Scene e costumi | Robert Innes Hopkins |
Luci | Daniele Naldi |
Visual designer | Driscoll Otto |
Personaggi e interpreti: | |
Daland | Goran Jurić |
Senta | Sonja Šarić |
L’Olandese | Anton Keremidtchiev |
Erik | Alexander Schulz |
Mary | Marina Ogii |
Il Timoniere | Paolo Antognetti |
Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna | |
con elementi del Teatro Municipale di Piacenza | |
Maestri del coro | Gea Garatti Ansini e Corrado Casati |
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