Bolzano: La Quinta pietroburghese di Juraj Valčuha
Venerdì 27 agosto presso il Teatro Comunale di Bolzano, l’Orchestra Haydn diretta da Juraj Valčuha si è esibita in un concerto che verrà ricordato a lungo. Non solo per il sontuoso programma (Capriccio italiano e Quinta Sinfonia di Čajkovskij), o per l’orchestra a ranghi rinforzati e tirata a lucido, ma perché si celebrava anche il termine degli otto anni in cui Daniele Spini ha firmato le programmazioni dell’orchestra. E, bisogna dirlo, lascia al suo successore Giorgio Battistelli un’orchestra in ottima forma anche dopo i lockdown, con l’arduo compito di decifrarne il futuro, quando bisognerà fare i conti con gli anni di pandemia e ripensare al ruolo che la musica avrà nella nostra società. Su questo già è uno stimolo interessante il convegno che si terrà al festival Seenfonica a Trento dal 15 al 17 ottobre e di cui speriamo di avere presto il programma. Ma senza tergiversare oltre, entriamo nella sostanza del concerto.
Una cosa che possiamo affermare con certezza è che Juraj Valčuha sa come far suonare un’orchestra. Il lavoro fatto su questo programma era evidente, in primo luogo nel compattare il suono degli archi che, complici anche i molti aggiunti per la produzione, non avevano vita facile. Sotto il gesto nitido e imperioso di Valčuha, però, l’Orchestra Haydn ha saputo trovare una solidità veramente notevole, che ha permesso al direttore di ricamarvi sopra le proprie idee musicali.
Idee musicali che nel Capriccio italiano non erano in realtà perfettamente aderenti al brano. Čajkovskij ha, insito nell’anima, un certo gusto per il pomposo e persino il kitsch. È proprio di moltissima musica russa dell’Ottocento, soprattutto quando si dà agli esotismi (si pensi al Capriccio spagnolo di Rimskij, per rimanere su un brano affine!). Questi pezzi si possono interpretare in vari modi: cedendo al manierismo, abbracciando il kitsch, lanciandosi in virtuosismi sperticati, divertendosi follemente o abbandonandosi ai languori. Quando vengono affrontati con mortale serietà, invece, perdono tutto il loro fascino e la struttura del brano non regge all’orecchio indagatore, pronto ad essere ammaliato e invece trovatosi ad analizzare ogni battuta. Sia chiaro, il Capriccio italiano è stato suonato benissimo e diretto altrettanto, ma quel brio, quel guizzo in più avrebbero reso spumeggiante ciò che invece Valčuha ha affrontato con sobrietà, saldezza e monocromia. Insomma, da corrusco a corrucciato il passo è stato breve.
Queste medesime caratteristiche spiegano il perché la Quinta Sinfonia sia invece risultata in un grande successo. Valčuha non ha mai perso il polso della composizione e vi ha trovato un interessante equilibrio tra tesa espressività e attenta cura dell’impalcatura formale. Particolarmente interessante il lavoro del direttore slovacco con i timbri, in particolar modo dei legni e dei contrabbassi, che hanno suonato magnificamente. Un mio plauso personale va al primo oboe e al timpanista, che svolge un ruolo fondamentale nella drammaturgia del brano, mentre bravo anche il primo corno, che è riuscito a reggere il lungo e impegnativo solo in modo impeccabile. Qui solo una maggiore direzionalità del fraseggio e una più limpida disinvoltura avrebbero potuto rendere quel solo veramente indimenticabile. Molto bene anche gli archi, salvo qualche pizzicato zoppicante non mi viene da segnalare quasi nulla. Insomma, possiamo intenderci, hanno suonato tutti molto bene.
Quando il livello è questo, si può portare il commento un po’ più in alto del bollettino. Il suono di Valčuha, come accennavo, era compatto e massiccio, oserei quasi dire dorato, insomma quel suono che ti aspetti uscire dalle mani di un Pletnev o di un Kissin. Questo suono lo possiamo definire “pietroburghese”, per la sua preziosità, lo sfarzo, l’eleganza imperale, e si contrappone ad un altro suono russo per eccellenza, che possiamo definire “moscovita” per comodità. In questo caso il suono è aspro, gelido, sferzante, persino rustico. Non ci sono certamente solo due impostazioni sonore per interpretare questo repertorio, figuriamoci, ma nella storia della musica russa abbiamo avuto molti interpreti il cui suono poteva trovare una propria definizione in “pietroburghese” e “moscovita”, una definizione che non ha nulla a che fare con la città di provenienza, ma semmai con la propria idea di Russia, chi zarista, chi sovietica (e non si parla qui di idee politiche, ma di sostrato culturale). Ebbene, Valčuha ha trovato in quest’occasione un suono pietroburghese. Il che è perfetto, vista l’epoca e i riferimenti culturali del buon Pëtr Il’ič, ma avrebbe allora richiesto un altro lavoro sul fraseggio. Valčuha non è un direttore che non si abbandona facilmente a languori ed entusiasmi, non ricerca quella componente schumanniana così presente nella musica di Čajkovskij, ma preferisce mettere l’accento sulla forza della struttura, ma anche sull’impulso nervoso e soprattutto sull’introverso scavo psicologico. Ci si trovava dunque in bilico: da un lato il suono morbido e imponente non si abbinava ai fraseggi tesi e irrigiditi, dall’altro mancava quella tensione spasmodica capace di spingere oltre il discorso. Pensiamo al contrasto abissale tra la tronfia marcia dell’Andante maestoso che apre il Finale e l’Allegro vivace che irrompe, imprevisto come una tempesta, con gli archi sul tallone. Ecco, in questi casi un suono più aspro, più moscovita appunto, avrebbe dato un’altra intensità e si sarebbe adattato come un guanto all’indole di Valčuha.
Questi sono d’altronde gli unici appunti che mi sentirei di fare su un ottimo concerto, accolto con grandissimo entusiasmo e scroscianti applausi dal pubblico, rivolti anche a Spini, ‘costretto’ ad alzarsi per prendersi la sua dose di applausi anche da orchestra e direttore. Decisamente un termine di mandato grandioso.
Alessando Tommasi
(27 agosto 2021)
La locandina
Direttore | Juraj Valčuha |
Orchestra Haydn | |
Programma: | |
Pëtr Il’ič Čajkovskij: | |
Capriccio Italiano, Op. 45 | |
Sinfonia N. 5 In Mi Minore, Op. 64 |
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