Canone Scaramelli

“Le opere dell’insigne Corelli, e principalmente l’opera V” […] “la sublime musica degli Hendl [sic], Porpora, Bach, ed altri simili” […] “ed in oltre esercitandosi nella musica degl’immortali Haydn, Mozart, ed altri di tal genere”.

Nel 1811 Giuseppe Scaramelli era tecnicamente, ma ancora per poco, un immigrato interno: dal Regno napoleonico d’Italia alle Province Illiriche dell’Impero Francese. Di discendenza ebraica, era nato a Venezia nel 1761 come suddito di San Marco; verso il 1784 si era trasferito nella Trieste asburgica dove morì nel 1844 dopo aver diretto per almeno quattro decenni l’orchestra del Teatro Nuovo (l’attuale Verdi) [1]. Fu quindi di volta in volta suddito veneziano, austriaco, francese, italiano di rito napoleonico, ancora francese, e poi di nuovo austriaco; eppure, a dispetto dei tanti passaporti cambiati, rimase per tutta la vita un musicista italiano, interessato principalmente all’opera. Lo dimostra il contenuto di un suo trattatello pubblicato appunto nel 1811 [2], dove si delineano le male pratiche teatrali del tempo: conflitti fra “primo violino direttore” e “maestro al cembalo”, libretti sfigurati, poca cura dell’intonazione, assenteismo degli orchestrali durante i recitativi, arbitrio divistico dei cantanti. Almeno musicalmente parlando, l’Autore sembra un patriota senza se e senza ma. In più passi traluce infatti la sua adamantina fiducia nella superiorità della prassi italiana; ad esempio per quanto riguarda la proporzione delle sezioni orchestrali e le scelte timbriche (pp. 10-13), ma soprattutto la gerarchia della concertazione secondo un modello che vede prevalere il primo violino sul pianista di sala e perfino sullo stesso compositore, qualora presente come d’uso alle prime recite. “Non è da prendersi perciò l’esempio dagli altri Teatri, ma solo da quelli d’Italia; lasciandosi dai Maestri compor l’opera, e dandosi la Direzione al primo Violino, che sappia il suo dovere, e l’opera andrà allora in buon ordine” (p. 38).

Si noti che l’opuscolo porta un’ossequiosa dedica al conte Pompejus Brigido von Bresowitz: radici familiari boemo-napoletane, Kammerer e Geheimrat di Francesco I d’Austria, nonché ex governatore della città ormai in pensione. Non abbiamo dubbi che ciò basterebbe ai signori dottori Luca Bianchini e Anna Trombetta per bollare lo Scaramelli come traditore della Patria, ossia un austriacante precursore del nazismo; proprio come fanno con Giacomo Gotifredo Ferrari da Rovereto, allievo di Paisiello e autore di memorie “tirolesi” piene di “aberrazioni” [doppio sic]. Ma di tali antistoriche amenità ci siamo già occupati in precedenza [3].

Ciò che qui ci preme valorizzare è la fotografia di un vero e proprio canone del classicismo musicale a vent’anni esatti dalla morte di Mozart e a due soli dalla scomparsa di Haydn. Un canone, giova ripeterlo, redatto da un violinista, compositore e impresario italiano a beneficio di una gestione teatrale di confine ma sempre di pretto stampo italiano, che egli si proponeva di riformare anche applicando criteri di maggior rigore al piano di studi del direttore professionista. In termini moderni potremmo parlare di un progetto di empowerment rispetto alle altre componenti del sistema operistico; senza però escluderne – nel solco dell’onorata tradizione didattica settecentesca, napoletana e non solo – l’incoraggiamento ad esercitarsi nel contrappunto avanzato (“il più indefesso studio sopra le Fughe le più difficili”). Di tali insegnamenti ebbero a giovarsi in primo luogo i suoi immediati successori sul massimo podio triestino: il figlio Alessandro (Venezia 1779-Trieste 1862) e il nipote Giuseppe Alessandro, nato a Trieste nel 1817 e defunto nel 1876 in una Venezia ridivenuta italiana. Col che la dinastia Scaramelli tornava a morire nel suo nido. [4]

Il “canone Scaramelli” parla da solo. Nessuna damnatio memoriae circa gli storici primati italiani: l’insigne Corelli nella tecnica dell’arco e il sublime Porpora in quella vocale campeggiano fra gli Antichi Maestri accanto al parimenti “sublime” Händel. Fra i Moderni, il Bach che qui si menziona sarà più probabilmente Carl Philipp Emanuel“sublime” pure lui – che non il padre Johann Sebastian ancora in attesa della sua Renaissance (ventura nel 1829 ad opera del circolo berlinese di Mendelssohn), seguito dagli “immortali” Haydn e Mozart. Per Beethoven era forse ancora un po’ presto… Da un presunto austriacante asservito alla creazione ex nihilo della fasulla Wiener Klassik non ci potevamo forse aspettare di meglio? Strano a dirsi: fra gli astri viennesi di primissima grandezza manca il patriarca Fux, manca Gluck e manca Hasse, il favorito di Maria Teresa.

E manca soprattutto Andrea Luchesi; ma a quest’ultima mancanza, diciamo la verità, eravamo in qualche modo preparati. Sarà pudicamente nascosto fra “gli altri di tal genere”?

Note

[1] Francesco Passadore-Franco Rossi, L’aere è fosco, il ciel s’imbruna: Arti e musica a Venezia dalla fine della Repubblica al Congresso di Vienna [Atti del Convegno internazionale di studi, Venezia, Palazzo Giustinian Lolin, 10-12 aprile 1997], Venezia, Fondazione Levi, 2000; Adriano Dugulin (a cura di), Shalom Trieste: Gli itinerari dell’ebraismo, Trieste, Civici Musei Storia ed Arte, 1998.

[2] Saggio sopra i doveri di un Primo Violino, direttore d’orchestra, di Giuseppe Scaramelli veneziano, Accademico filarmonico e primo violino direttore d’orchestra del teatro di Trieste, Trieste, Stamperia di G. Weis, 1811, pp. 51. Ristampato con introduzione critica e note da Ivano Cavallini ne: “Il Flauto dolce”, nn. 17/18 (ottobre 1987-aprile 1988), pp. 54-61.

[3] Carlo Vitali, L’Accademia della Bufala, 4.a puntata: L’ora della capra; in “Musica” online. https://www.rivistamusica.com/2022-2/

[4] Giuseppe Ràdole, Ricerche sulla vita musicale a Trieste (1750-1950), Trieste, Edizioni Italo Svevo, 1988.

 

Carlo Vitali

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