Carlo Vistoli: «far capire che non siamo voci strane»

Alla vigilia della Prima dell’Orfeo e Euridice di Gluck al Teatro dell’Opera di Roma, con la direzione di Gianluca Capuano e la regia di Robert Carsen, che vedrà il debutto nel ruolo eponimo del giovane e talentuoso controtenore Carlo Vistoli. A lui abbiamo posto qualche domanda, non solo sulla produzione.

  • A mo’ di preambolo, dopo l’uscita, che eufemisticamente potremmo definire “poco felice”, di un titolista di un quotidiano di non secondaria importanza, ti andrebbe di raccontare il registro di controtenore, storicamente autonomo e distinto dalle voci bianche – e non femminili – dei castrati

In effetti, senza che il giornalista che ha fatto l’intervista ne avesse colpa, questo titolo mi ha dato non poco fastidio. Un qualche titolista, appunto, che evidentemente non ha letto il contenuto dell’articolo (in cui affermo il contrario), ha ben pensato di far colpo sul lettore scrivendo «Canto come una donna», oltretutto virgolettato, come se fossero parole mie.

Ora, come ho già ripetuto più volte, non mi sognerei mai di dire una frase del genere, proprio perché è questo l’equivoco che, come controtenore, cerco costantemente di evitare. Non ho mai affrontato, nemmeno all’inizio dei miei studi, questa vocalità come imitazione del canto femminile, e anzi ho sempre creduto importante metterne in risalto la base maschile, nonostante il registro più acuto e sovrapponibile, nel mio caso, a quello del contralto.

La voce di controtenore non è una novità di questi ultimi decenni, nonostante il “boom” sia piuttosto recente: già nella musica polifonica rinascimentale e barocca venivano utilizzati cantanti che utilizzavano il falsetto per il registro superiore.

Poi, dopo la nascita dell’opera, e per tutto il XVIII secolo in particolare, la voce del castrato, con le sue capacità fuori dall’ordinario – rese possibili dall’intervento fisico cui si veniva sottoposti –, ha fatto da padrone, fintanto che non è stata soppiantata, all’inizio del XIX secolo, dalla nuova voce eroica, quella del tenore.

In Inghilterra, la tradizione oratoriale ha permesso alla voce del controtenore di continuare ad essere impiegata, anche se i castrati italiani – quando disponibili – spesso erano preferiti anche in questi casi. Nel XXI secolo, questo registro è stato poi riscoperto, grazie a dei pionieri come Alfred Deller e Russel Oberlin, tanto da attrarre l’attenzione di grandi compositori: uno tra tutti, Benjamin Britten.

Oggi, molta musica è scritta appositamente per questa vocalità e i controtenori sono sempre più presenti in sale da concerto e grandi teatri: questo, credo, per via della tendenza di ricercare una maggiore veridicità sulla scena, e, grazie alla tecnica che si è sempre più affinata, – diciamo da David Daniels in poi –, è ora possibile equiparare, come volume e spessore, questa voce alle altre più “canoniche”.

  • Perché in Italia, paese che con una punta di provincialismo si attribuisce il titolo di “culla della musica” qualcuno si stupisce ancora di voci presenti da sempre nel repertorio polifonico, sacro e profano, e solistico da alcuni secoli e per giunta largamente impiegate nel repertorio barocco e contemporaneo? Penso al countertenor di tradizione inglese e allo haute-contre francese, ad esempio.

Nel nostro paese, la grande tradizione ottocentesca e verista è ancora molto presente nell’immaginario degli appassionati. Senza nulla togliere ai capolavori che sono stati creati durante questi periodi storici, che anch’io amo, credo tuttavia che il repertorio precedente ancora tardi ad essere apprezzato pienamente.

Noto che, all’estero, le opere precedenti al periodo classico sono molto più richieste, e quindi è naturale che la vocalità del controtenore sia più impiegata. Tuttavia, già da qualche anno, i grandi teatri di tradizione si stanno aprendo, con risultati encomiabili, al repertorio barocco: penso alla Fenice di Venezia o alla Scala di Milano. Nel mio caso presente, anche l’Opera di Roma, nonostante Orfeo ed Euridice non sia di certo catalogabile come opera barocca e sia un titolo che, pur attraverso varie trasformazioni, non è davvero mai uscito di repertorio.

In generale, sono convinto che, più ancora che nelle opere settecentesche, forse più algide e distanti dal nostro sentire moderno – perché spesso, tranne il magnifico caso di Händel, incentrate sul virtuosismo vocale –, credo per esempio che nel teatro d’opera veneziano del XVII secolo, grazie anche ai libretti spesso di altissimo livello, uno spettatore di oggi si possa maggiormente immedesimare; un discorso simile al teatro elisabettiano.

Tornando al caso del controtenore, mi sento di affermare che anche il pubblico italiano abbia iniziato ad apprezzare i grandi esponenti di questa corda: si pensi al successo ottenuto in Tamerlano da Franco Fagioli e Bejun Mehta qualche stagione fa alla Scala. Queste sono due voci che, seppur molto diverse tra loro, non hanno difficoltà a farsi sentire anche in uno spazio grande, e gli spettatori l’hanno apprezzato. La situazione non è ancora equiparabile a quella di paesi come la Francia, la Germania o l’Inghilterra, ma siamo sulla buona via. Il fatto che, per esempio, in Francia il tenore ottocentesco avesse mantenuto dei punti di contatto con l’haute-contre di tradizione barocca ha senz’altro facilitato il recupero delle musiche dei secoli passati – non dimentichiamoci inoltre che già all’epoca di Lully sì cominciò a concepire l’idea di repertorio, assente in altre realtà –, così come accade per il countertenor inglese, sempre presente nella grande tradizione corale d’oltremanica, come dicevo prima.

Ho vari colleghi italiani che sono apprezzati in tutto il mondo e anche in patria sono giustamente riconosciuti.

Un’apertura verso la normalizzazione di questo registro è in corso: ciò che è importante, credo, è far capire che non siamo voci “strane”, da ascrivere alla categoria dello stravagante, ma cantanti come tutti gli altri.

  • Come hai scoperto la tua voce e chi poi ti ha indirizzato negli studi e nelle scelte del repertorio?

Ho avuto sempre una grande passione per la musica cosiddetta classica, anche se, da ascoltatore, non mi precludo nessun genere, purché di qualità. Sin da piccolo, ascoltavo i greatest hits, strumentali dapprima, dei secoli passati; Bach è stato il ponte che mi ha portato a scoprire il repertorio barocco, per poi passare a quello operistico. Ho studiato per qualche anno prima la chitarra classica poi il pianoforte, ma cantavo sin da bambino. Ascoltando dischi di opere barocche, e incuriosito da questi cantanti che facevano ruoli da eroi ma con voci acute, ho iniziato ad imitarli, e quindi, verso i vent’anni, prima con un maestro della mia città, poi con la guida per me fondamentale di William Matteuzzi ho cercato di lavorare sul registro di “falsetto” – etichetta che uso con riluttanza, perché ha in sé un’accezione negativa, ma serve per farsi capire.

Trovando le giuste risonanze e gestendo il sostegno del fiato, ho poi rinforzato questo registro. Ho quindi seguito i corsi di Sonia Prina al Conservatorio di Ferrara per approfondire il repertorio e affinare lo stile. All’inizio non è stato affatto facile: mi sono occorsi vari anni e molti tentativi prima di ottenere un qualche risultato che ritenessi soddisfacente.

Ma si tratta di un continuo work in progress, e cerco costantemente di migliorarmi e imparare, non solo a lezione, ma osservando e chiedendo consigli ai colleghi che stimo. Si dice poi che il palcoscenico sia il miglior maestro: posso senz’altro confermarlo, perché è nel momento in cui si canta per un pubblico, con o senza costume e scenografia, che ci si mette veramente alla prova e si verifica quali sono i propri punti di forza e le proprie debolezze; è su queste ultime che occorre lavorare e impegnarsi affinché la volta successiva sia sempre meglio che la precedente. Ogni traguardo è un nuovo punto di partenza.

  • Ti accingi ad affrontare, all’Opera di Roma, il personaggio di Orfeo, nel quale Gluck trasfonde tutti i principi della sua riforma musicale e che richiede un rigore assoluto nell’interpretazione, evitando comunque il rischio di cadere in un canto neutro. Come si supplisce alla mancanza dei virtuosismi del Barocco conferendo comunque la giusta drammaticità?

È vero che questo ruolo non contiene i virtuosismi tipici delle opere dei decenni precedenti; penso soprattutto a compositori italiani come, per esempio, Porpora o Vinci, ma offre molto a livello espressivo. L’opera è piuttosto corta, e qui a Roma la eseguiremo senza intervallo, ma molto impegnativa fisicamente e per la tenuta vocale, tanto più che l’aria che tutti si aspettano, “Che farò senza Euridice?”, viene quasi alla fine. Il rischio, con questo tipo di musica, è quello di farsi troppo influenzare dal carattere spesso elegiaco e, se si vuole, quasi “leggero”, e sortire un effetto stucchevole; i numeri caratterizzati dalla tonalità maggiore, anche in momenti particolarmente drammatici – si pensi all’aria succitata –, sono molteplici.

Ciò che, assieme a Gianluca Capuano e Robert Carsen, ho cercato di ottenere è una “verità” emotiva che porti l’ascoltatore a identificarsi con la figura del protagonista. Occorre giocare le proprie carte dal punto di vista dell’espressività, e dare grande risalto alla parola: mi è stato sempre insegnato che, assieme al suono, viene anche il testo, e in un cantante credo faccia una grande differenza. In quanto italiano, ho la fortuna di cantare spesso nella mia lingua, ma occorre comunque fare molta attenzione al fraseggio e alla pronuncia, anche nella propria lingua madre. Nonostante il recitar cantando disti un secolo da quest’opera e Gluck non fosse italiano, tuttavia l’origine della poesia per musica è da rintracciare nelle opere di Monteverdi e Cavalli, e la grande lezione che ho appreso affrontando ruoli di quel periodo storico è di veicolare il suono sempre attraverso l’inflessione della parola.

Proprio perché «Orfeo ed Euridice» è un’opera volutamente spoglia dei fuochi d’artificio vocali appannaggio dei castrati dell’epoca, basare la propria interpretazione sull’immediatezza del suono, unito alla parola, credo sia la chiave per rendere al meglio la musica gluckiana. Farò un uso discreto delle variazioni e degli abbellimenti: sono convinto – di comune accordo con il direttore d’orchestra – che sia necessario e storicamente plausibile aggiungere talvolta dei passaggi improvvisati o variare delle frasi ripetute, ma chiaramente non come si fa di norma con la tradizionale aria con Da Capo: la riforma di Gluck non soppianta ogni stilema precedente, e si inserisce all’interno di un generale cambio di gusto, ma di certo cantanti e pubblico non rinunciarono del tutto alle usanze legate all’estro estemporaneo dell’esecutore. Questo rende viva la musica, e ci dà la possibilità di “ricreare” ogni volta in modo diverso, sempre tenendo presente ciò che immaginiamo fosse la volontà dell’autore.

  • Come si lavora con Robert Carsen?

Per me, è stato un bellissimo incontro: da anni ammiro il suo lavoro come spettatore, e avere la possibilità di debuttare un ruolo così importante con lui mi rende molto felice. Prima con il suo ottimo assistente Christophe Gayral, poi con lui stesso, abbiamo cercato di “entrare” dentro uno spettacolo che era già stato fatto varie volte da altri cantanti. Non è comunque una semplice ripresa, ma una riproposizione, un adattamento, nonostante scenografia e costumi siano gli stessi, per nuovi interpreti. Carsen lavora in modo preciso e chiaro: a parte alcuni movimenti fissi che è fondamentale siano il più possibili esatti e uguali ogni volta, lascia libertà alla propria espressione personale, e cerca, all’interno della sua idea generale dell’allestimento, di portarti verso una verità scenica che possa esprimere al tempo stesso il personaggio e te stesso.

Lo spettacolo è improntato a una grande essenzialità e non c’è traccia delle origini mitiche del personaggio: Orfeo potrebbe essere chiunque tra noi. Amore, il personaggio più difficile da risolvere in un’ottica di smitizzazione, è inteso come “doppio”, forse una visione, prima di Orfeo e, alla fine, di Euridice. Il viaggio all’inferno del protagonista è un vero viaggio tra le ombre, ma anche un percorso di elaborazione del lutto. La scenografia, una vasta distesa brulla, e le bellissime luci contribuiscono a incentrare il dramma su delle figure fortemente umane, così come la fondamentale presenza del coro – amici e parenti dei protagonisti, vestiti come dei contadini con gli abiti della festa di una Sicilia – o Grecia – arcaica.

Il difficile, per quanto mi riguarda, è restare completamente solo in scena: come ho detto in precedenza, occorre contrastare la tentazione a lasciarsi trasportare da una musica di tono spesso opposto rispetto ai moti di dolore espressi dal libretto, e tentare di rendere, anche scenicamente, più reale possibile la “semplice” storia di una perdita – fatto di per sé che ci accomuna tutti. Personalmente, spero di avere altre occasioni in futuro per collaborare con Carsen; sento di aver imparato molto in queste settimane e cercherò di farne tesoro.

Alessandro Cammarano

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