Cesare Siepi: un ritratto
Nato a Milano, il dieci febbraio del 1923, poco più di un secolo fa, Cesare Siepi rientra a pieno titolo nel ristretto novero di grandi bassi di scuola italiana che, con la sua arte, l’onorò in ogni parte del mondo. In particolare negli Stati Uniti, dove Siepi debuttò nel 1950 per inaugurare con il Don Carlo di Verdi la prima stagione della Metropolitan Opera di New York sotto la guida di Rudolf Bing, tanto è vero che, a un certo punto, negli Stati Uniti Siepi si trasferì.
Morì ad Atlanta, il cinque luglio del 2010. La sua carriera fu lunga, coronata di successi nelle sale di maggiore prestigio, sotto la direzione di Maestri passati alla storia, da Toscanini a De Sabata, da Furtwängler a Mitropoulos, da Karajan a Schippers. Proprio al Don Carlo eseguito al Teatro dell’Opera di Roma sotto la direzione di Thomas Schippers nel 1974, va la mia memoria di ascoltatore molto giovane, ma già capace di apprezzare un’interpretazione in cui Siepi, con quello che era definito un canto gentile ed educato, riusciva a entrare nelle pieghe più nascoste dell’animo turbato di Filippo II re di Spagna.
Furono recite tormentate, mi raccontava tempo fa Martina Arroyo che era l’Elisabetta di quel Don Carlo in cui Alberto Fassini riprendeva lo spettacolo di Luchino Viscont che Siepi aveva creato nel 1965 sotto la direzione di Carlo Maria Giulini. Gli scioperi del personale non contribuirono a rendere l’atmosfera distesa. Eppure si andò in scena. Angelo Romero, il Marchese di Posa di quell’edizione, ricorda i dodici minuti di applausi che salutarono il duetto fra Posa e il Re di Spagna. Che cosa faceva Siepi in quel duetto ha dell’incredibile, racconta oggi il baritono sardo, cui il Re imponeva di restare inginocchiato davanti a lui per consentirgli di emettere i suoi suoni torniti, uguali in tutta la gamma, dal grave all’acuto, ed essere a pieno titolo un Monarca assoluto. Poco dopo, nel duetto con l’Inquisitore di Carlo Cava, dopo l’ingresso dell’anziano religioso, il Re rispondeva ai suoni gravi esibiti dal collega, con suoni altrettanto poderosi, ma con un’eleganza che non aveva termini di paragone.
Verdi, dunque, fu autore nelle corde dell’artista milanese che, però, è ricordato – esiste fortunatamente un film delle recite salisburghesi che possiamo vedere e rivedere – per essere stato il Don Giovanni mozartiano per antonomasia degli anni a cavallo fra i Cinquanta e i Sessanta del secolo scorso. E come Figaro mozartiano, con la sua celebre erre moscia che rendeva i suoi recitativi ancora più mordaci, ho conosciuto la voce di Siepi nella celeberrima incisione Decca de Le Nozze di Figaro diretta da Erich Kleiber con i complessi della Staatsoper di Vienna, un classico intramontabile della discografia, in cui la coppia che Siepi forma con la deliziosa Susanna di Hilde Güden è davvero impareggiabile.
Cesare Siepi studiò canto privatamente, a Milano, sotto la guida di Cesare Chiesa, didatta nella scuola di avviamento al canto del Teatro alla Scala, che tra i suoi allievi ebbe anche Giuseppe Di Stefano.
Nel 1941 debuttò al Comunale di Schio, fu Sparafucile nel Rigoletto di Verdi: una curiosità, lo stesso personaggio e lo stesso teatro in cui, parecchi anni più tardi, avrebbe debuttato Ferruccio Furlanetto. Di formazione e convinzione antifascista, durante la guerra Siepi si trasferì in Svizzera, nel Canton Ticino, dove proseguì gli studi con il direttore di coro Arnaldo Filipello. Nel 1946 tornò al palcoscenico, e fu alla Fenice, – Silva in Ernani e Zaccaria nel Nabucco di Verdi, titolo quest’ultimo con cui il ventisei dicembre di quello stesso anno inaugurò la stagione della Scala in occasione della riapertura postbellica. Nel teatro milanese svolse un’attività particolarmente intensa fino al 1950; nella stagione estiva del 1946 al Palazzetto dello Sport, cantò Ramfis in Aida, Sparafucile e, debuttando nella recita del ventinove settembre in sostituzione di Tancredi Pasero, affrontò un altro personaggio chiave della sua carriera, il Padre Guardiano de La Forza del destino.
Il 1947 fu anno di numerosi debutti alla Scala: partecipò alla prima rappresentazione de L’Oro di Ildebrando Pizzetti, per essere poi Raimondo nella donizettiana Lucia di Lammermoor, il Vecchio ebreo in Sansone e Dalila di Saint-Saëns, il Conte des Grieux in Manon di Massenet, il Grande Inquisitore nel Don Carlo, Pogner ne I Maestri cantori di Norimberga di Wagner in versione italiana, sotto la direzione di Tullio Serafin e accanto alla giovane Eva di Renata Tebaldi.
E ancora, Colline nella Bohème pucciniana, Lotario nella Mignon di Thomas accanto a Giulietta Simionato e Giuseppe Di Stefano, drettore Gianandrea Gavazzeni.
Nel 1948 alla Scala cantò di nuovo Ramfis, Alvise nella Gioconda di Ponchielli, opera che aveva eseguito per la prima volta nel 1946 al Verdi e al Castello di San Giusto di Trieste. Fu quindi Mefistofele nel Faust di Charles Gounod, personaggio che aveva già affrontato, quello stesso anno, al Politeama Rossetti di Trieste.
Il dieci giugno del 1948, nel trentesimo anniversario della morte di Arrigo Boito, Toscanini lo scelse per essere Mefistofele nel Prologo e Simon Mago del raro Nerone di cui furono eseguiti in forma di concerto il terzo e il quarto atto.
Seguirono nel 1949 Baldassare ne La Favorita di Donizetti, già eseguita nel 1947 al San Carlo, e Giorgio ne I Puritani di Bellini.
Come dire una carriera che affiancava ruoli da protagonista assoluto, a personaggi più defilati, per esempio Pistola nel Falstaff, senza disdegnare le apparizioni concertistiche nella Passione secondo Matteo di Johann Sebastian Bach, nel Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart o nella Messa di Requiem di Giuseppe Verdi.
All’Accademia Chigiana, nel 1949, Siepi interpretò il ruolo de La Senna nella Senna festeggiante di Vivaldi nella prima rappresentazione in epoca moderna di questa rarità del Prete Rosso, dirigeva Carlo Maria Giulini.
Alla Scala tornò ancora, dopo il 1950, segnatamente in Simon Boccanegra, in Don Giovanni che affrontò per la prima volta a New York, nel Mefistofele e, accanto a Maria Callas, nella ripresa di Anna Bolena, in cui prese il posto di Nicola Rossi Lemeni.
Gli anni Cinquanta del secolo scorso furono però gli anni di Siepi primo basso per il repertorio italiano, al Metropolitan di New York.
Nel basso milanese, chiamato a sostituire il previsto Boris Christoff sospetto di legami con il regime comunista bulgaro, il sovrintendente, Rudolf Bing, individuò il degno successore di Enzo Pinza, che per decenni aveva dominato la scena del grande teatro newyorkese.
Il successo fu tale che Siepi fu confermato al Met per oltre venti stagioni, dal 1951 al 1973 per un totale di quasi cinquecento recite; vi cantò Verdi, Mozart, i titoli già affrontati in Europa cui si aggiunsero personaggi nuovi come Sarastro in Die Zauberflöte, cantato però in inglese, e, con particolare esito Gurnemanz di Parsifal, con cui già Siepi si era misurato all’Opera di Roma accanto alla Callas e sotto la direzione di Serafin in versione italiana, ma che al Met cantò ripetutamente nell’originale versione in tedesco.
Nel 1951 alla Carnegie Hall di New York fu il basso nella Messa di Requiem verdiana diretta da Arturo Toscanini, accanto a Herva Nelli, Fedora Barbieri e Giuseppe Di Stefano che fu Siepi a indicare al Maestro come possibile solista di quella storica esecuzione di cui esiste testimonianza discografica. Abbiamo accennato alle presenze salisburghesi: nel 1953, nel 1954 e nel 1955 nella straordinaria cornice della Felsenreitschule, Cesare Siepi fu Don Giovanni, diretto da Wilhelm Furtwängler e poi da Dimitri Mitropoulos in un’edizione storica del capolavoro mozartiano.
Non ci fu solo l’opera però, o il concerto nella grande carriera di Cesare Siepi che il diciannove maggio del 1962 debuttò a Broadway, al Broadhurst Theatre, in Bravo Giovanni, un musical di Ronny Graham e Milton Schafer, che si apre con la canzone Rome, da lui resa celebre. Tornò al musical nell’aprile del 1979, al St James Theatre di Broadway, in Carmelina, di Alan Jay Lerner, Burton Lane e Joseph Stein, un musical tratto dal film, Buonasera, signora Campbell, che Gina Lollobrigida aveva portato al successo. Abbiamo ricordato le tappe salienti di una carriera straordinaria per qualità e longevità. Altri successi seguirono, ma lasciamo ai cronologi elencarli, al 1986, in ogni caso, risale l’ultimo debutto di Siepi, nella Jérusalem di Verdi al Regio di Parma.
L’addio alle scene avvenne il 21 aprile 1989 con un concerto al Teatro Carani di Sassuolo, sempre in terra emiliana.
Morì al Piedmont Hospital di Atlanta nel luglio 2010; era stato colpito da un ictus poco tempo prima. Nel 1962 aveva sposato Louellen Sibley, ballerina al Metropolitan di New York. Dal matrimonio nacquero due figli.
Carattere schivo e riservato, Siepi fu sempre molto attento a difendere la propria vita privata, poco propenso a comparire in pubblico fuori dalle scene e a concedere interviste.
Di lui restano, numerose, le incisioni discografiche – Siepi fu artista Decca, ma non incise soltanto con la casa londinese, pensiamo a L’Amore dei tre re di Montemezzi consegnato al disco per la RCA sotto la direzione di Nello Santi, – che ci restituiscono una voce che in gergo si definisce facile.
Cantare per Cesare Siepi, era come esprimersi parlando, con un’eleganza e una dolcezza che furono tutte sue e lo caratterizzarono nel confronto con colleghi illustri, suoi coevi.
Giacomo Lauri-Volpi, nelle sue Voci parallele (Bongiovanni, 1960) dà una definizione illuminante della vocalità privilegiata di Cesare Siepi: “Voce togata, un po’ sorda e aperta nella zona inferiore, manca del metallo aureo che costituiva il blocco compatto del lingotto vocale del romagnolo; il confronto è con Ezio Pinza. In compenso, Siepi sembra aver superato il metodo istintivo e modificato l’oggetto del suo canto.
Ricercatore assiduo, ha trovato la melodia nel fondo dell’anima, e va dirigendo la voce verso una meta infallibile. Donde la tenerezza e la persuasione del suo canto, la dignità del suo stile, l’austerità della sua colorita dizione, la solennità ieratica del suo atteggiamento scenico”.
Tutte qualità che oltre ad aver potuto apprezzare nelle non molte, ma pregnanti, occasioni di ascolto dal vivo, oltre al Don Carlo romano di cui dicevo prima, ricordo con meno piacere, ma non per il Sarastro di Siepi, Il Flauto magico mozartiano alla Fenice in versione italiana in uno spettacolo che non fu tra i più riusciti di Giorgio Pressburger, ho avuto quindi la possibilità e il piacee di verificare grazie al disco.
C’è un’aria di Verdi, in particolare, che – venata di malinconia com’è – mi sembra ideale per apprezzarne il timbro pastoso, la cura nella resttuzione della parola scenica, il gusto per un fraseggio morbido, la nobiltà dello stile. E’ quella del vecchio Silva in Ernani, “Infelice, e tuo credevi”, momento di debolezza di un personaggio severo e dolente, dalla determinazione quasi diabolica. Senza dimenticare, naturalmente, il suo capolavoro di scavo nel personaggio di Re Filippo, “Ella giammai m’amò” dal Don Carlo, che giustamente Carlo Colombara farà riascoltare nell’occasione dell’omaggio milanese a un suo illustre figlio.
Rino Alessi
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