Dialoghi di amore e morte: intervista a Daniel Harding
Intervistare Daniel Harding non è l’impresa più facile al mondo. Del celebre direttore di Oxford bisogna vincere in primo luogo il riserbo, quasi una sorta di timidezza, ma alla fine, grazie ad una cortese insistenza e soprattutto alla disponibilità dello staff del Teatro del Maggio Musicale Fiorentino, sono riuscito a strappare quindici minuti dopo l’ultima prova del Requiem di Mozart. Al Maggio, infatti, Harding si trovava impegnato per la produzione di Adriana Lecouvreur, debuttata il 27 aprile, e il Requiem in questione il 29, suggellando una collaborazione di grande successo che ci auguriamo sinceramente possa conoscere nuovi episodi nelle future programmazioni.
- Maestro Harding, lei si descrive come un viaggiatore di passaggio nel repertorio operistico italiano otto- novecentesco. Com’è stato iniziare a studiare l’Adriana Lecouvreur?
La prima sensazione è stata di confusione: e questo è un ottimo segno! Sai, c’è della musica in cui apri la partitura, fai un primo ascolto e tutto ti viene istantaneamente rivelato. Normalmente, quella è musica d’effetto ma che finisce ben presto di svelarti segreti e dunque smette di essere interessante. Un esempio sono i Carmina Burana, bellissimi, ma non ci torni anno dopo anno per continuare a scavare. Per Adriana, quando mi si presentò il progetto chiamai un amico, ottimo direttore e appassionatissimo di opera italiana, per chiedergli se Adriana Lecouvreur fosse qualcosa di adatto a me. Mi disse subito che era un’opera incredibile e che l’avrei amata e, nonostante alle prime letture non capissi bene perché la si potesse amare così tanto, mi son fidato. Ho continuato ad ascoltare e a studiare, ho cominciato passarci del tempo e finalmente ho iniziato a capire. Perché Adriana Lecouvreur è l’altro tipo di musica: è divertente, ma non è intrattenimento, c’è molto di più, è molto più complessa, molto più interessante. Mi sono reso conto che il tempo investito nello studio era tempo ben speso perché la musica era di qualità vera, reale e perché continui a scoprire dettagli, a svelarne aspetti. Poi, finora abbiamo fatto solo una recita e la performance è l’unico momento in cui inizi davvero a vedere il volto di un brano.
- In che senso?
Puoi studiare quanto vuoi, puoi provare quanto vuoi, ma fino a quando non porti lo spettacolo sul palco per la prima recita non capisci davvero di che si tratta. Nella preparazione dell’Adriana ho scoperto l’esistenza di alcune lettere in cui Carlos Kleiber afferma che se c’era un’opera, un nuovo brano che avrebbe voluto aggiungere al suo repertorio, quella era l’Adriana di Cilea. Ora posso capire perché e posso immaginare quanto magnificamente avrebbe condotto quest’opera. C’è così tanto che puoi ottenere dall’orchestra, una varietà di colori e di sottigliezze, ma anche di slancio e di gioia. E quando i toni si fanno più oscuri, l’opera diventa veramente toccante. Tradizionalmente tendiamo a classificare le opere in “opere per i cantanti” e “opere per i direttori”, intendendo con le seconde, quelle in cui al direttore viene dato moltissimo spazio e un ruolo di primo piano e con le prime, quelle in cui invece il cantante domina e il direttore deve saper accompagnare. Ecco, Adriana Lecouvreur ha un po’ la reputazione di appartenere a quest’ultimo tipo, ma penso che l’amore di Kleiber per questa partitura dimostri invece quanto un direttore possa andare a fondo e tirare fuori.
- E ora che è passata la prima recita, ha già cambiato visione dell’opera?
Non direi che è un cambio di visione, ma più un approfondimento, una maggiore consapevolezza. Inizi a capire meglio dove serve spingere, dove serve trattenere, questo genere di cose. Insomma, inizi a capire come dare una forma alla performance, aspetto sempre interessantissimo. Il compositore ti lascia molte istruzioni, e Cilea è chiarissimo. Questo è più mosso, questo è meno mosso, questo è allegro, quest’altro adagio e così via. Ma perché? E come? Puoi anche seguire fedelmente ciò che c’è scritto, ma solo il tempo ti permette di capire come dare una forma e una coerenza drammatica al brano. E con la recita di martedì ho anche iniziato a capire quali sono i momenti in cui devi aiutare l’opera ad andare avanti. L’Adriana Lecouvreur è un’opera meravigliosa, la amo profondamente, ma ci sono momenti in cui devi aiutarla e momenti in cui invece non devi far niente, è tutto già perfetto così. D’altronde sono pochissimi, veramente pochissimi, i brani nell’intera storia della musica che possono dirsi perfetti. Anche questo te lo mostra solo la performance.
- Adriana Lecouvreur è una delle molte storia di amore e morte che popolano il teatro musicale. Questa sera lei dirigerà il Requiem di Mozart, così distante dal linguaggio musicale dell’opera di Cilea, ma in cui la morte è la reale protagonista.
È interessante, perché il Requiem di Mozart non è meno drammatico né meno reale dell’Adriana. Ci troviamo però di fronte ad un’idea completamente diversa della morte e di come parlarne. Il Requiem è per noi un brano di importanza storica e al contempo storicizzato, è entrato in un canone ufficiale da cui abbiamo ora una certa distanza, anche solo temporale. Ma quando lo ascolti, ti rendi conto che per chi viveva in quel preciso momento, il tema della morte era incredibilmente reale e vicino. Ho la stessa sensazione con le messe di Schubert, la morte era davvero parte della vita di tutti i giorni, così come una cosciente paura di ciò che ne sarebbe seguito. Schubert aveva i suoi problemi con la dottrina e con la chiesa, a causa di ciò che credeva e in cui non credeva, e non è il mio ruolo parlare per conto di Mozart [sogghigna], ma ti basta ascoltare questi brani per capire che la paura del giudizio finale, di una dannazione, di un inferno che ti attende, c’era ed era molto più visibile. Per interpretare brani come questi dobbiamo cercare quell’approccio, quella sensazione. Durante le prove ho fatto un riferimento ai dipinti di Caravaggio: c’è secondo me una brutalità, un’oscurità nel Requiem che è fondamentale, questa è musica che non è solo civile e ben educata, ma anche rozza e brutale.
- Nell’immedesimarsi nell’epoca di Mozart, ha percepito una distanza, un diverso approccio della società di oggi nei confronti della morte?
Non posso parlare di questo momento storico in particolare perché stiamo tutti vivendo un avvenimento che non riusciamo veramente a comprendere fino in fondo, però è vero che la nostra società, in base a dove vivi e soprattutto alla tua condizione, ha un rapporto diverso con la morte. Per una bella famiglia borghese, che so, della Toscana o di Londra o di Parigi, la morte non è più una faccenda giornaliera, è qualcosa da cui siamo protetti, che quando entra nella nostra vita percepiamo addirittura come un’offesa. Già solo cent’anni fa, e basta leggere qualsiasi biografia per rendersene conto, la morte di un figlio o di un parente era qualcosa da cui non eri protetto, rientrava nell’orizzonte di ciò che poteva succedere, per quanto tragico. Ora abbiamo un’aspettativa di vita per cui senti che, se va tutto bene, fino agli 85-90 anni ci arrivi. Pensiamo proprio di meritarcelo! Ed è meraviglioso vivere nella società moderna, sia chiaro! [ride] Ma se vogliamo capire questa musica, però dobbiamo saperci proiettare indietro nel tempo e allontanare da questa visione.
- Parlando di viaggi nel tempo: Adrienne Lecouvreur visse nel primo Settecento e moeì sessant’anni prima che il Requiem venisse composto, ma Cilea scrive quest’opera nel 1902, quindi oltre cent’anni dopo la morte di Mozart, che nel Requiem sembra a sua volta guardare al passato. C’è un ponte tra questi due brani?
Sì, il Requiem è guarda molto indietro. Ci sono in Mozart queste composizioni che sono chiaramente rivolte al passato: Idomeneo sembra il momento in cui l’opera barocca è esplosa in tutta la sua magnificenza e il Requiem è colmo di riferimenti al Barocco. Non solo, nel Requiem troviamo questa componente di severità che è molto vicina al Vecchio Testamento, molto più che al Nuovo. Insomma, sembra guardare più al Seicento che all’Ottocento. Nell’Ottocento l’approccio è molto più accondiscendente, io provo questo, io provo quello, m nel Requiem quest’attenzione alla soggettività non c’è. L’individuo è minuscolo di fronte all’enormità della morte. Chiaramente l’Adriana Lecouvreur è molto diversa, non solo il linguaggio musicale è distantissimo, ma anche quello emotivo. Te ne accorgi ancora di più ad affrontare questi brani contemporaneamente, come in questi giorni. Semmai è Adriana stessa, il personaggio storico, ad essere più vicina al Requiem. Adriana era celebre per aver levato al teatro quello che c’era di artificiale e artificioso, per essere diventata ambasciatrice di un messaggio artistico che doveva essere reale, diretto. Ecco, lei, pur in tutta la morbidezza con cui Cilea la immerge, si avvicina molto al messaggio del Requiem di Mozart.
Alessandro Tommasi
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