Don Pasquale al tempo dei post su Facebook: intervista a Ferdinando Sulla
Raggiungo Ferdinando Sulla per via telefonica pochi giorni prima del suo debutto al Teatro Verdi di Padova con Don Pasquale di Donizetti il 31 ottobre 2021. Il giovane direttore si troverà a capo dell’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta insieme al basso Roberto Scandiuzzi (Don Pasquale) e ai vincitori del Concorso Toti dal Monte, per una produzione del Teatro Stabile del Veneto realizzato dalle città di Padova, Treviso, Bassano e Rovigo.
- Scorrendo il tuo profilo ho notato i lunghi e attenti studi di direzione di coro, con cui hai anche una notevole esperienza professionale. Come ha influenzato la direzione d’orchestra questo lavoro sulla vocalità?
La direzione di coro e, più in generale, l’educazione alla voce hanno sempre fatto parte della formazione, fin da quando ero piccolo. I miei primi anni di studio sono stati votati all’organo e quindi, trovandomi spesso nell’ambiente sacro, ho sempre cantato nei cori della cappella musicale della mia città. Proseguendo con gli studi mi è sembrato naturale portare avanti parallelamente la direzione d’orchestra e di coro! La direzione d’orchestra d’altronde mi accompagnava già da quando iniziai a studiare organo, intorno ai 14 anni. Fu quando dovetti abbandonare organo che, molto naturalmente, mi dedicai completamente a quello che fino a quel momento era uno dei due percorsi che seguivo e ora è la mia vita. Sicuramente una traccia di questa vicinanza con la voce mi ha dato un importantissimo imprinting, dunque. In particolare penso mi abbia dato la possibilità di pensare la musica, non solo vocale ma anche strumentale, da un punto di vista particolarmente italiano e cioè con la voce come punto di partenza e riferimento. In Italia abbiamo una certa sensibilità per l’attributo della cantabilità e ho notato che porto questo approccio anche in altri repertori, trovando il riferimento alla voce anche nelle tessiture degli strumenti.
- Questo anche con il grande repertorio sinfonico austro-tedesco o francese?
Dove possibile, certo! Tra l’altro sono reduce da un’esperienza che mi ha confermato l’utilità di questo approccio. Posso fare una piccola digressione?
- Certo, prego!
Sono reduce da una produzione con un’orchestra fenomenale che inviterei davvero la stampa a segnalare, ossia l’Orchestra Giovanile Sinfonici Friulani, retta da quattro ragazzi con una semplice associazione. E con loro ho appena diretto un concerto dedicato alla musica di Debussy e Ravel, con brani come il Tombeau de Couperin o il Prélude à l’après-midi d’un faune, insomma repertorio non immediato e anzi molto impegnativo per dei giovani musicisti. Però è stata una delle più belle esperienze della mia vita.
- Perché?
Perché non ho mai incontrato un ambiente così favorevole, così attento e accogliente dal punto di vista emotivo, capace di cogliere con precisione ciò che io stesso volevo esprimere nel programma. E non solo hanno assorbito come spugne, ma ci sono stati episodi di riavvicinamento alla musica per cui è successo che qualche ragazzo sia venuto da me a dirmi che prima del progetto pensava di abbandonare la musica e dopo il concerto stanno ripensando seriamente al loro futuro. Sentirmi responsabile di una scelta di vita così importante mi ha fatto sentire non solo onorato, ma anche di essere sulla strada giusta. E poi sono stato travolto dalla resa musicale e umana di questi ragazzi. Comunque, menziono questa esperienza perché proprio in questo caso questa attenzione alla vocalità mi ha aiutato.
- In che modo?
Come dicevo, questo non è un repertorio facile da affrontare, in primo luogo tecnicamente e tanto più per un’orchestra giovanile. Per approcciare la materia musicale, quindi, ho scelto una visione quasi italiana della vocalità. Mettendo al centro di tutto il canto, la voce, l’imitazione della voce, l’attenzione alla cantabilità, molte sfide tecniche si sono risolte con semplicità e naturalezza. Io stesso non avrei mai immaginato che potesse aiutare così tanto in questo repertorio!
- È un po’ che ci stiamo girando intorno, dunque andiamo poi al sodo di questa intervista: Don Pasquale. Come si inserisce Don Pasquale nella produzione di Donizetti e nel repertorio operistico ottocentesco?
Don Pasquale è un’opera veramente molto, molto particolare, anch’essa caduta vittima di stereotipi abbastanza ingiustificati. Spesso è vista come ultima opera buffa, come un ultimo tentativo per il genere. In realtà per me è l’opera che apre una nuova strada nel genere. Una prima testimonianza musicale della ricerca di Donizetti la possiamo vedere nei recitativi qui sempre e interamente accompagnati, mai secchi come spesso erano in un genere considerato minore.
- Hai parlato di “ricerca di Donizetti”. Ricerca di cosa?
Donizetti qui fa una cosa molto interessante: prende una situazione tipicissima dell’opera buffa settecentesca e la rende attuale, contemporanea, verosimile. È anche la ragione per cui le regie che collocano Don Pasquale in un’epoca più moderna sono calzanti e funzionano molto bene con il tentativo di Donizetti di rinnovare il genere partendo da stereotipi settecenteschi ma proiettandoli nella Roma della sua epoca. Questo filtrare la realtà dello stereotipo con gli occhi di oggi fa intuire, in fondo, che l’uomo alla fine non cambia mai e continua a ridere, piangere e innamorarsi sempre nello stesso modo, sempre per gli stessi motivi. Dal punto di vista musicale, poi, quest’opera è una fucina di elementi che ritroveremo poi anche da altri autori del pieno ‘800, tra cui lo stesso Verdi. Ci sono passaggi che mi ricordano Otello e Falstaff, ad esempio il momento in cui Don Pasquale si rende conto che non c’è più speranza, “È finita, Don Pasquale”, in cui c’è un crollo psicologico totale del personaggio, che di colpo lo avvicina ad Otello, quando invoca Dio perché non gli ha risparmiato il dolore di scoprire che Desdemona lo sta (crede lui) tradendo, ma anche al monologo di Ford, quando si crede tradito da Alice. Ovviamente i valori, i caratteri di queste tre figure sono diversissimi, ma di colpo si trovano accomunati nel sentimento. E questo viene realizzato in un modo affine, un monologo in minore, dal tono monocorde, ripetendo una frase su una nota fissa. Dunque è questa la ricerca di Donizetti, aprire una porta sul teatro del futuro, partendo dall’eredità settecentesca e dal teatro di Rossini.
- Secondo te all’origine di questo rinnovato interesse nei confronti di Donizetti vi è proprio questo scavo psicologico sempre più approfondito nei personaggi, nei loro umori, nella loro personalità?
Assolutamente sì. Donizetti è stato a lungo oggetto di stereotipi che non ne coglievano il valore e la grandezza. Stiamo parlando, certo, di un autore che sfornava opere con ritmi di lavoro che l’hanno portato alla follia, ma è emblematico che anche le opere cosiddette minori abbiano sempre ragione di interesse, meritino sempre attenzione, non ricadano quasi mai in meccaniche scontate e anzi restituiscono una rappresentazione delle situazioni umane sempre ricca e sfaccettata. In questo Don Pasquale è proprio una pietra miliare, che non solo di fa chiedere come si comporti un personaggio, ma perché quel personaggio si comporti così. Questo tipo di lavoro, però, non di rado si nasconde, viene celato dietro ad apparenti stereotipi.
- Ad esempio?
Prendiamo Ernesto, che nella sua Romanza peraltro duetta con la tromba, quindi uno strumento che soprattutto nella retorica ottocentesca non troviamo spesso in questi contesti. Ernesto canta questa Romanza come se fosse vittima di un’ingiustizia incredibile, però stiamo parlando di un bamboccione cresciuto con soldi altrui, che viene di colpo messo alla porta perché se la cavi da solo e lui, ovviamente, si mette a piagnucolare. In questo senso sembra diventare una parodia di se stesso, quando canta “Cercherò in lontana terra” sembra già sapere che non succederà mai, si autocommisera e basta. Questo approccio un po’ ipocrita, pronto alla lamentela con le spalle sempre coperte, mi sembra onestamente attualissimo! (ride) conosciamo tutti personaggi che non fanno altro che pretendere ma che appena qualcosa viene loro negato, allora partono a lamentarsi. Non voglio fare il passo più lungo della gamba, ma la Romanza di Ernesto per me è un po’ come quei post su Facebook in cui, di fronte ad un’ampia platea, ci si lancia in un compiaciuto e ostentato lamentarsi, sapendo che subito qualcuno correrà da te a dirti “oh, poverino!”. Ecco, queste sono le meccaniche che mi mostrano la profondità di Donizetti nel cogliere come l’uomo non cambi mai e che dunque lo rendono sempre e incredibilmente attuale.
Alessandro Tommasi
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