Ettore Bastianini, baritono “Grand-seigneur”
Fatto abbastanza raro per un baritono, Ettore Bastianini è entrato precocemente nel mito; molte generazioni di appassionati d’opera lo ricordano sempre con grande nostalgia e creano occasioni d’incontro grazie all’attività dell’associazione a lui intitolata.
Il mito, però, si rinnova in continuazione e la rete offre innumerevoli possibilità d’ascolto della nutrita discografia ufficiale, cui si aggiungono brani tratti da esecuzioni dal vivo entrate nella leggenda.
La bellezza e opulenza di un mezzo vocale che vide Bastianini emergere negli anni Cinquanta del secolo scorso nel grande repertorio italiano e una vicenda umana travagliata, crearono, prima della sua precoce fine, i presupposti per la divinizzazione.
La voce del baritono toscano, elargita con grande generosità, era così bella e morbida da essere paragonata al bronzo, per il colore brunito e virile di un timbro privilegiato, e al velluto, per la dolcezza intrinseca dell’emissione: era cioè potente e solida al punto giusto e quindi in grado di restituire senza troppo sforzo i grandi fraseggi verdiani, ma emessa con sapienza e largo sfoggio di mezzevoci e nuances espressive. “Una delle migliori voci del secolo, bronzea, timbrata, impavida, estesa”, l’hanno definita i dizionari di musica classica, arricchita e impreziosita oltretutto dalla splendida dizione toscana e dalla nobile ed elegante presenza scenica. Un vero baritono “grand seigneur”.
Nato a Siena il 24 settembre del 1922, nella Contrada della Pantera, Bastianini era figlio di padre ignoto e, fin da ragazzo iniziò a lavorare per contribuire all’economia familiare. Fu anche garzone in un laboratorio di pasticceria e il datore di lavoro, grande melomane, notando la sua bella voce, gli fece conoscere la signora Fathima Ammanati, che divenne la sua prima insegnante di canto e lo fece studiare da basso.
Dopo aver vinto il concorso d’accesso per il Centro di Avviamento al Teatro Lirico Comunale di Firenze, che frequentò assieme a Franco Corelli, Bastianini debuttò giovanissimo il 16 novembre del 1945 al Teatro Alighieri di Ravenna come Colline nella Bohème di Puccini. Nello stesso anno, nacque Jago, il figlio avuto da una giovane collega conosciuta a Forlì.
Come basso la sua fu una carriera dignitosa, ma non mirabile; ebbe in repertorio titoli come Il Barbiere di Siviglia, Lucia di Lammermoor, Aida, Il Trovatore e La Gioconda, alla Scala partecipò all’esecuzione dell’Oedipus Rex di Stravinskij.
Dopo circa otto anni di attività, su consiglio del maestro Luciano Bettarini che gli suggerì di cambiare registro, nel 1951 Bastianini si ritirò per parecchi mesi dal palcoscenico e reimpostò la voce nella corda baritonale.
Non fu però fortunato il secondo debutto, avvenuto a Siena il 17 gennaio del 1952 nel personaggio di Giorgio Germont della Traviata, da ciò la decisione di lasciare di nuovo le scene per un più approfondito periodo di studio.
Il successo arrivò quando, nel dicembre dello stesso anno, si presentò nel personaggio del Principe Jeletzki de La dama di picche di Ciaikovskij a Firenze. Erano gettate le basi per l’avvio di una magnifica carriera che portò Bastianini nei maggiori teatri del mondo.
Già nella stagione 1953/1954 è al Metropolitan di New York per La Traviata e Il Trovatore.
La carriera fu rapida e sfolgorante, e il repertorio vasto, passando da Ciajkovskij (Mazepa al Maggio Musicale Fiorentino nel 1954, Eugenio Onjeghin alla Scala nello stesso anno) a Verdi, di cui celebre restò la raffigurazione compassata di Germont padre nello spettacolo di Luchino Visconti alla Scala accanto a Maria Callas.
In breve Bastianini fu considerato il baritono di riferimento per il grande repertorio italiano, osannato e amato dal pubblico, non sempre dalla critica.
Affrontò personaggi molto diversi fra loro, da quelli belcantistici come Ernesto ne Il Pirata di Bellini e Severo in Poliuto di Donizetti che lo videro alla Scala accanto alla Callas e a Corelli, cui vanno aggiunti sempre in Donizetti il regale Alfonso XI di Castiglia ne La Favorita e Lord Enrico Ashton in Lucia di Lammermoor.
Grande spazio della sua attività fu rivolto al Verdi di Rigoletto, Nabucco, il Conte di Luna de Il Trovatore, Renato di Un ballo in maschera, Don Carlo in Ernani, Don Carlo di Vargas nella Forza del destino, Rodrigo nel Don Carlo.
Affrontò il repertorio verista impersonando Carlo Gérard, Michonnet, Rodolfo ne La Bohème di Leoncavallo, Tonio, Alfio e quello pucciniano (Scarpia, Marcello e Michele ne Il Tabarro) passando per il repertorio francese (Atanaele in Thaïs di Massenet che eseguì a Trieste in versione italiana, Valentino in Faust, Escamillo, Zurga ne I pescatori di perle) e russo (Andrej in Guerra e pace), interpretò più volte e incise per la Decca che lo legò a sé con un contratto di esclusiva il ruolo rossiniano di Figaro ne Il barbiere di Siviglia.
L’attività fu incessante: Bastianini riusciva a cantare anche ottanta recite l’anno, a volte spostandosi da una città all’altra a bordo della sua Porsche.
Appena possibile ritornava nella sua adorata Siena, che per lui rimase sempre la città del cuore. Dal 1959 fu eletto ininterrottamente Capitano della sua Contrada, la Pantera, che portò alla vittoria nel Palio del luglio 1963.
Ammalatosi gravemente di un cancro alla faringe agli inizi degli anni Sessanta, cominciò ad avere problemi alla voce e, già nell’aprile del 1962, subì il primo e impietoso insuccesso alla Scala: il suo Rigoletto fu contestato da quello stesso pubblico che lo aveva portato in trionfo nelle stagioni precedenti.
Nonostante l’avanzare inesorabile della malattia, che Bastianini tenne segreta, e i lunghi periodi di pausa dalle scene per le cure, l’artista senese non si risparmiò e cantò fino a quando fu in grado di farlo. La musica era la sua grande passione e il canto era per lui fonte di vita: “Non temo nulla, in questi momenti, se non – è più forte di me – dover restare io senza la voce. Solo così non potrei più dare nulla agli altri e gli altri a me.”.
È interessante ripercorrere gli ultimi anni di attività del grande baritono senese. Nel 1963 ventisei rappresentazioni in loco suggellarono l’amore profondo e reciproco tra Ettore Bastianini e la Staatsoper di Vienna; nell’ottobre dello stesso anno ebbe luogo il suo debutto con Il Trovatore a Tokyo, dove ottenne un grande successo personale. L’anno terminò con il Don Carlo alla Scala.
Anche in quelle stagioni tormentate Bastianini riuscì ad aggiungere nuovi personaggi al suo repertorio e così fu Mefistofele ne La Dannazione di Faust di Berlioz al San Carlo di Napoli nel dicembre del 1964 e in seguito Jago, il personaggio malefico in Otello, sulla carta così distante dalla sua sensibilità artistica, che gli aveva suggerito il nome da dare al figlio. Bastianini fu Jago al Teatro Reale del Cairo dove si era presentato agli inizi come giovane basso.
Già qualche anno prima, nel 1961, a Vienna la sua casa discografica, la Decca, avrebbe voluto che Bastianini incidesse Jago nell’Otello di Verdi con Karajan, Del Monaco e la Tebaldi e i complessi della Staatsoper, ma l’occasione non fu propizia.
Il record producer di quell’incisione – il mitico John Culshaw – ebbe in quei frangenti un peso artistico fondamentale anche nella gestione dei cantanti e ricorda come il Karajan direttore operistico poteva essere sia l’alleato più comprensivo di un cantante sia un invincibile nemico.
In quell’occasione il maestro salisburghese fu per Bastianini, che spesso aveva apprezzato e con cui tornò a collaborare, un invincibile nemico e s’insospettì al primo segno di pigrizia del baritono già minato dalla malattia. Si risentì quando Bastianini cominciò a non presentarsi alle prove o alle sessioni con la scusa che non si sentiva bene.
«In quel periodo iniziale – ricorda ancora Culshaw nella sua autobiografia – non fu difficile per me riprogrammare le sessioni per dargli il tempo di recuperare; ma quando si ripresentò era evidente, anche se sorprendente per una persona della sua intelligenza, che non sapeva la sua parte. All’inizio Karajan fu paziente, ma la sua pazienza non è molto elastica. È un direttore che s’impone un’invidiabile autodisciplina e quindi si aspetta almeno uno sforzo in questa direzione da chi lavora con lui. Sfortunatamente, Bastianini cercò di coprire la sua mancanza di preparazione con una specie di innocenza ostentata, con addirittura la pretesa che non sapeva neanche di cosa parlasse il lavoro. “Cos’è questa storia del fazzoletto?” domandò a un certo punto.
La rottura avvenne quando dovette cantare “Era la notte” che, vista come semplici note sullo spartito, non era un passaggio molto difficile. Per diversi tentativi Karajan si fermò dopo la prima o la seconda frase, e a ragione, perché orchestra e voce non andavano insieme. Poi Bastianini commise l’errore assurdo di dire che il tempo di Karajan non era chiaro; e lo disse davanti a tutta l’orchestra, cosa che fece ridere di lui tutti i musicisti. Dopo altri due tentativi Karajan lasciò perdere questo passaggio e passò ad altro, e alla fine della sessione mi disse che non avrebbe continuato con Bastianini come Jago. Voleva invece lo Jago che si trovava al momento a Vienna, Aldo Protti, che circa dieci anni prima aveva interpretato quella parte per la Decca, senza molta gloria, nella versione con la Tebaldi e Del Monaco diretta da Alberto Erede. Nessuno, e men che meno l’ufficio americano, era entusiasta della scelta di Protti, ma a Vienna avevamo poche scelte: o ingaggiavamo Protti o abbandonavamo la registrazione. A me spettava l’ingrato compito di dare la notizia a Bastianini, che per reazione si ubriacò. Era un uomo troppo simpatico per trovarsi in una situazione simile, e ho pensato spesso se già da allora non fosse consapevole del cancro incurabile che lo avrebbe ucciso pochi anni dopo, mentre era ancora nel suo periodo migliore. Senza dubbio, nessuno di noi immaginava che fosse malato, sebbene sapessimo che non era nel suo stile cantare a Vienna una parte che non aveva studiato.».
L’ultima sua apparizione fu sulla ribalta del Metropolitan di New York nel 1965 proprio nella parte del Marchese di Posa, che tanto spesso aveva interpretato.
Bastianini trascorse il suo ultimo anno di vita in solitudine, interrotta soltanto da qualche apparizione pubblica in Contrada e dalle visite di pochi amici, nel 1966 si ritirò definitivamente a Sirmione dove morì il 25 gennaio del 1967 a soli quarantaquattro anni. È sepolto a Siena e la sua tomba è meta di molti ammiratori da ogni parte del mondo.
Rino Alessi
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