Filippo Mineccia, controtenore internazionale dal cuore italiano
In occasione dell’incisione del suo prossimo album con Accademia Bizantina, il Tamerlano di Antonio Vivaldi, abbiamo incontrato il controtenore toscano Filippo Mineccia. Ne è nato un interessante scambio che, approfondendo i risvolti della sua carriera, ci accompagna nel suo percorso di profondo studio e riscoperta dell’opera barocca.
- L’opera barocca guarda quasi sempre verso Oriente; se molti libretti traggono ispirazione da soggetti alessandrino- ellenistici – dove a farla da padroni sono satrapi, diadochi e regine guerriere – altrettanti traggono ispirazione, soprattutto nel periodo Rococò, alla “Turchia” o meglio alle “Turcherie”. Altri libretti guardano al conflitto Oriente/Occidente. Come ti poni nei confronti dell’ambientazione quando affronti un personaggio?
È con estrema felicità che affronto questa nuova registrazione, e l’interesse è non solo musicale ma anche storico essendo appassionato di storia bizantina. Tamerlano, o Timur Lang (Timur lo zoppo) è stato uno dei grandi condottieri del Medioevo. Personalità controversa e poliedrica, fu colui che riuscì ad arrestare l’aggressivo sultano turco Bajezid I° che in quel momento (1402) era quasi al punto di conquistare definitivamente Costantinopoli, capitale millenaria dell’Impero Romano d’Oriente. Quindi qui il conflitto è plurimo, da una parte abbiamo lo scontro tra Oriente ed Occidente (rappresentato da Bajezid ed Andronico, principe bizantino) e lo scontro, ben più importante dal punto di vista drammatico, di due mastodontiche figure quali appunto quelle del Sultano Ottomano Bajezid e di Tamerlano, Emiro dell’impero Timuride (addirittura discendente dei Mongoli di Gengis Kahn). Il conflitto Oriente/Occidente ad essere sinceri qui è un po’ messo da parte, perché se vogliamo proprio essere chiari sull’argomento, l’impero bizantino agli inizi del ‘400 non era che un piccolo lembo di terra che circondava Costantinopoli, Il Peloponneso, Tessalonica e qualche sparuta isola dell’Egeo. Inoltre, da ormai molto tempo, l’imperatore Bizantino era un vassallo del Sultano, obbligato a versare tributi annui per evitare di essere sopraffatto definitivamente.
Dal punto di vista musicale va detto che Il Tamerlano (1735) non è un’opera totalmente autografa di Vivaldi, ma un pasticcio, da lui stesso confezionato. La tecnica del “pasticcio” era prassi comune all’epoca. Il compositore prendeva un libretto, componeva ex novo i recitativi e (a volte) qualche pezzo inedito, ed inseriva (spesso sotto consiglio degli stessi interpreti canori) arie di altri compositori adattando talvolta il testo e talvolta la musica, spesso utilizzando arie che avevano incontrato grande successo in allestimenti precedenti. Si veniva così a formare una sorta di “Greatest hits” del momento che rispondeva a varie esigenze: dava la possibilità di riascoltare brani che erano piaciuti, portava via molto meno tempo rispetto alla composizione integrale di un melodramma e dava agio ai virtuosi di sfoggiare le proprie arie cosiddette “di baule”, che li avevano resi famosi ed amati dal pubblico.
- I tuoi cd si caratterizzano sempre per un filo conduttore che lega le arie proposte in una sorta di racconto musicale organico, penso ai tuoi lavori su Paisiello e Hasse, ad esempio. Quali le linee guida quando intraprendi un percorso discografico?
Quando intraprendo un percorso discografico generalmente inizio scegliendo un compositore su cui voglio lavorare, quindi analizzo moltissime partiture reperendo materiale sia online sia andando fisicamente nelle biblioteche. In seguito seleziono i brani che meglio si adattano alla mia voce e scelgo tra le 70 e le 100 arie, le stampo e le trascrivo (con molta lentezza perché il lavoro di trascrizione è lungo, penoso, estremamente meticoloso e stancante perché molto spesso i manoscritti sono in cattive condizioni e richiedono molto tempo per essere decifrati al meglio). Dal lavoro di trascrizione viene fuori una ulteriore selezione di circa 30 arie che si riduce poi definitivamente ad una quindicina: quella è la base su cui costruirò il cd ed il programma da eseguire durante i concerti. Un prodotto discografico per essere commerciabile deve rispondere a molteplici richieste: deve essere interessante, ben bilanciato e vario.
- A quella di cantante unisci una straordinaria attività di ricerca e riscoperta di materiale musicale dimenticato, riportando alla luce veri capolavori. Come sì coniugano questi due aspetti nella tua vita di musicista?
È una fatica enorme, ma credo che oggigiorno il cantante che si dedica a questo tipo di repertorio non possa esimersi da questo tipo di attività di ricerca. Siamo come degli “archeologi musicali”. Per me è sempre un’emozione inspiegabile ascoltare un’aria appena trascritta che nessuno ascolta da 300 anni, anche se col suono metallico e sterile del file midi del pc, quel momento è solo mio e mi ripaga di tantissime ore spese a friggermi gli occhi sul computer. La soddisfazione massima è sentire realizzata in un cd la musica che ho trascritto. Il fatto che io la possa interpretare mi rende un privilegiato e sono felice di aver intrapreso questo percorso.
- Più amore o più impeto guerriero nei personaggi che senti a te più vicini?
Che sia amore o impeto, ci va sempre messa l’anima. È quello che cerco di fare ogni volta che canto e interpreto qualcosa, anche a costo di essere imperfetto o di fare degli sbagli. Questo è un tipo di lavoro in cui non puoi non sporcarti le mani. Il pubblico ti vuole vedere in faccia, vuole qualcosa di intoccabile ed indescrivibile. Vuole l’emozione dell’attimo, che muore nel momento stesso in cui viene creato. Non ci si può nascondere dietro uno spartito o dietro un leggio, non si può fingere un affetto, lo devi sempre sentire ed interiorizzare. Se fingi, il pubblico se ne accorge e la magia si rompe. Cerco quindi di adattarmi ad ogni ruolo con un approccio sempre aperto, cercando di assecondare al meglio secondo le mie possibilità quello che la musica suggerisce.
- Tu canti moltissimo all’estero, e con grande successo, mentre in Italia ti si ascolta, purtroppo, meno spesso. Perché?
l’Italia è un paese in cui il repertorio operistico del 17°e 18° secolo ha poco seguito. Adesso dopo molti anni, grazie alle coraggiose direzioni artistiche di grandi teatri come Il Regio di Torino, La Scala di Milano, La Fenice di Venezia, Il Maggio Musicale fiorentino, il San Carlo di Napoli o il festival della Valle d’Itria a Martina Franca, si è capito che la varietà crea ricchezza e che il Giulio Cesare di Handel o L’Orlando Furioso di Vivaldi sono parte integrante della nostra storia e che se ben eseguiti creano nel pubblico lo stesso interesse che possono provocare Verdi o Puccini. Ad ogni modo va detto anche che i controtenori in Italia sono ancora oggi visti con molto scetticismo, e purtroppo devo dire che a volte questo scetticismo è giustificato. Molto spesso chi si approccia allo studio di questa vocalità lo fa con poca professionalità e lasciandosi guidare da personalità fuorvianti. Il risultato è molto spesso deludente e così il controtenore viene relegato alla stregua di un uomo che imita (male) il canto femminile.
Per quello che riguarda il mio caso personale è vero, canto moltissimo all’estero, ma ho comunque cantato in molti teatri e festival Italiani per esempio il Teatro del Maggio, Il festival di Spoleto, il Teatro dell’Opera di Roma o il Teatro Verdi di Pisa. Canto con una certa regolarità alla Verdi di Milano e farò di tutto per cantare di più nel mio paese, lo amo troppo per allontanarmi. È una promessa che faccio a me stesso ed a coloro che mi apprezzano e mi stimano. Ad ogni modo me ne sono andato a vivere anni fa all’estero perché credo che oggi un cittadino “europeo” abbia il diritto dovere di conoscere l’Europa aperta e senza frontiere, dono poco apprezzato e che oggi viene pericolosamente spesso messo in discussione. Non dimentichiamolo: questa Europa unita è il risultato di un faticosissimo lavoro intrapreso molti anni orsono e che ha avuto un prezzo umano enorme. L’Europa è sempre stata e sarà terra di integrazione e fusione. E dobbiamo lottare per mantenere un’Europa libera e multiculturale. Detto questo, credo inoltre che per un cantante lirico sia fondamentale se non vitale conoscere ciò che succede fuori dal proprio paese anche a costo di affrontare disagi. Io ho faticato molto e per vivere fuori mi sono trovato costretto a fare lavori molto umili ma di cui vado fiero, perché aiutano molto a far capire il valore dei soldi e la gioia per vedere il tuo sogno realizzato. Credetemi, stare piegato per terra a pulire mattonella per mattonella dà un’altra visione delle cose.
- Esiste un giusto punto di compromesso tra filologia e libertà di interpretazione?
Si esiste, e si chiama buon gusto, che si lega spesso all’intelligenza, l’umiltà, il sapere mettersi in discussione e il sapere ascoltare. Quando si canta bisogna provare a guardarsi da fuori e domandarsi se non stiamo abusando dei nostri pregi, se ci sono spazi per migliorare, essere indulgenti con le nostre mancanze e fieri dei traguardi ottenuti. Per quello che riguarda la filologia, purtroppo non abbiamo testimonianze registrate di come cantassero i nostri avi, ci rimangono solo qualche rappresentazione grafica, i manoscritti, i trattati di canto e le cronache di coloro che hanno assistito agli spettacoli. Non è molto ma è qualcosa. A quel qualcosa va aggiunta la sapienza che ci insegnano le grandi voci di ieri e oggi e cercare di farci guidare dalle persone di cui abbiamo stima non solo musicale ma anche umana. Personalmente diffido da coloro che pensano di avere la verità in tasca e cercano di importi con la forza il loro modo di vedere le cose. La musica si fa e si costruisce insieme, ascoltandosi.
Alessandro Cammarano
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