Firenze: Black Culture a Fabbrica Europa

“L’arte – il blues, lo spiritual, il jazz, la danza –
è ciò di cui disponevamo al posto della libertà”
R. Ellison

  1. LeRoi Jones

LeRoi Jones, Amiri Baraka, Imamu Ameer Baraka, chiamatelo come volete ma non dimenticatelo. Potrebbe essere questo, in sintesi, il messaggio forte del primo incontro dedicato alla black culture nel programma di Fabbrica Europa 2024. Nell’informale spazio del PARC quattro musicisti, anzi sette perché coadiuvati da tre allievi della Scuola di Musica Elettronica del Conservatorio Cherubini di Firenze, ci raccontano uno dei personaggi fondamentali, guida spirituale e politica, della cultura afroamericana del dopoguerra. Venuto a contatto con la rivoluzione cubana negli anni Sessanta Jones si converte alla religione mussulmana dopo la morte di Malcom X e trascina quell’esperienza nelle dure lotte antisegregazioniste negli USA. Non solo con i suoi scritti (è poeta, saggista, drammaturgo, critico jazz)ma direttamente coinvolto nel cuore della rivolta per i diritti civili. Come saggista il suo Il popolo del Blues (1963) è tutt’ora considerato un testo imprescindibile per l’approfondimento dei processi sociologici degli afroamericani attraverso il jazz. Jones è anche considerato uno dei rari jazzisti del verbo, cioè reading con accompagnamento jazz, improvvisazione free.

Proprio nell’ambito di questa esperienza avviene l’incontro, nei primi anni duemila, con il Dinamitri Jazz Folklore, collaborazione che poi sfocerà in due  splendidi documenti sonori Akendengue Suite (RaiTrade) e Live in Sant’Anna Arresi 2013 (Rudi). Di quella formazione Emanuele Parrini, Simone Padovani, Dimitri Grechi Espinoza e Beppe Scardino, oggi, a dieci anni dalla scomparsa dell’artista e attivista nero, ci raccontano di lui, usando tracce della sua voce, le sue parole, il suo messaggio.  Lo fanno proponendo una formula interessante, anche rischiosa, sommando cioè quattro quadri in solo. Si può dire che la scelta ha funzionato per merito degli artisti che hanno saputo evitare il rischio di una eccessiva frammentazione dei singoli contributi.

Parrini apre con violino e viola adagiati su un piano, dopo che l’elettronica ha diffuso inebriante pulviscolo sintetico e la scattante voce di Jones. In questa posizione inusuale pizzica le corde, le sfiora, le sfrega, le accarezza con l’archetto. Tutte queste azioni, in una forte ambientazione gestuale, creano, sommano, accumulano tutta una serie di frammenti sonori, schegge che vagano, si scontrano, si disperdono. Un immaginario scenario sospeso, sfondo che poi il musicista, imbracciati gli strumenti, attraversa allontanandosi dall’intimismo d’apertura con fraseggio nervoso ma anche riflessivo, tra inflessioni blues e libere aperture verso un suono radicale.

Padovani ci offre tutta la ricca fisicità del rapporto con il proprio set di percussioni. Praticamente ci racconta la storia ancestrale della comunicazione umana che nasce dal percuotere un legno, più tardi un tamburo. L’incrocio con l’elettronica di questi suoni primigeni è molto affascinante, ognuno trasmette un proprio valore comunicativo ed emozionale che ci arriva chiaro. Congas, djembe, tamburo a cornice, sonagli, qualunque oggetto sonoro che vibri assurge ad elemento, testimone di una storia che soprattutto per la comunità afroamericana ha rappresentato una specie di cordone ombelicale, traccia culturale indelebile con Madre Africa. Padovani, al di là di talento e tecnica sopraffina che dissemina qua e là, disegna uno scenario pulsante dove Baraka si aggira con parole di fuoco, dolcezze poetiche tra  ritmi vitali.

Il calore del tenore di Espinoza, che apre con un fraseggio melodico, languido, che ricorda Lester Young e incrocia la voce di Jones,  ci riporta in territori decisamente jazzistici. Questo è solo l’approccio, progressivamente il linguaggio si fa più serrato, nervoso, aggressivo. Risuona la rivolta sonora, anche il misticismo di Coltrane, come l’impeto e il lirismo di Rollins. Ma il sassofonista percorre anche una costante traccia blues come testimonianza di un popolo, delle sue leggende, visione del mondo che ci parla dell’invisibilità del corpo nero, dei processi di alienazione patiti che Jones ha magistralmente affrontato nei suoi scritti. Espinoza sfrutta lo spazio sonoro, si aggira tra il pubblico, supportato da una fitta trama dell’elettronica. Poi non soffia più nello  strumento, gioca sulle chiavi, sulla campana, come percussioni tribali aprendo all’ingresso di Scardino.

L’ultimo quadro assume il carattere di rito religioso, una liturgia che vede il musicista passare dal flauto, ispiratissimo e poetico, al sax baritono, dal suono potente, sinuoso e coinvolgente. Un’apertura fascinosa che purtroppo Scardino dirada troppo presto  a favore dell’uso di campionamenti  e  di un synth, scelta che non riesce a prolungare, sviluppare le atmosfere suscitate nell’intro. Il carattere rituale del set viene come rafforzato dal finale, molto emozionante, dove tutti i musicisti, compresi gli allievi che hanno curato, con gusto e la distanza giusta, la parte elettronica, si muovono nello spazio con campanacci che risuonando evocano la storia unica di un piccolo grande uomo, intellettuale a tutto tondo che ci racconta la storia di un popolo, delle sue lotte per l’emancipazione. Il suo popolo.

2 – Gil Scot-Heron

 

Affascinati dalla brillante e passionale presentazione di Francesco Martinelli affrontiamo il set della contrabbassista Silvia Bolognesi dedicato a Gil Scot-Heron (1949-2011) più attrezzati. Comprendiamo meglio che considerarlo uno dei padri, tanto musicali che spirituali, dell’hip hop e del rap, è corretto ma insufficiente. La sua figura è molto più complessa,  problematica, profondamente legata, condizionata anche dalle vicende familiari. Tutto il suo percorso artistico, tra anni Sessanta e Settanta, possiede un costante sottofondo culturale di critica alla società bianca americana, al suo controllo dei mezzi di comunicazione, allo sbandieramento di una illusoria uguaglianza sociale. Lo fa attraverso l’attivismo militante, scritti, romanzi, registrazioni, canzoni (famosa la sua The Revolution Will Not Be Televised), ma soprattutto  attraverso le performance di  spoken word e poetry reading, testi, poesie, parole condite da un profondo senso di appartenenza, recitate dal vivo e caratterizzate da una forte connotazione ritmica.

Da qui prende le mosse la Bolognesi per raccontarci il personaggio e le sue sfaccettature. L’affianca l’elettronica e la voce di Griffin Rodriguez che completa una quadro sonoro e comunicativo di qualità. Il contrabbasso possiede tutte quelle sfumature che permettono lo sviluppo di  tracce narrative, la musicista toscana le sa gestire non solo forte di un talento strumentale ampiamente riconosciuto  ma anche nella capacità di distribuire nell’improvvisazione poetiche diverse, contrasti e riflessioni. L’apertura è una coinvolgente trama ritmica, dove suono profondo e legnoso ci trascinano subito in una vivace, riconoscibile, ambientazione dell’avanguardia nera. Rodriguez gioca con la voce di Scot-Heron, la lancia, la deforma , la spezza, creando un estraniante, astratto  sfondo dove il contrabbasso tra pizzicato e archetto disegna un racconto che oscilla tra intimo, poetico e irruente. Interessante anche l’uso della voce di Rodriguez che si avventura con credibilità su testi del poeta statunitense, mentre le corde della Bolognesi costruiscono una ragnatela di emozioni. Nel finale i due usano due strumenti tradizionali africani, ‘ngoni e m’bira, per riaffermare, se ce ne fosse stato bisogno, da dove provengono stimoli, idee e sogni.

Paolo Carradori
(5 e 6 ottobre 2024)

La locandina

Violino, viola Emanuele Parrini
Percussioni Simone Padovani
Sax tenore Dimitri Grechi Espinoza
Flauto, sax baritono, synth, elettronica Beppe Scardino
Elettronica Irene Fortunato, Edoardo Martini, Lorenzo Milani
Contrabbasso, ‘ngoni Silvia Bolognesi
Elettronica, voce, m’bira Griffin Rodriguez

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