Genova: nella Beatrice di Tenda trionfa il Belcanto

Beatrice di Tenda è la penultima opera di Vincenzo Bellini, nonché la meno rappresentata del compositore catanese, risultando quasi gemma minore tra le due lucenti e assai più rappresentate pietre miliari del balcanto quali Norma e I puritani. Tuttavia, la tragedia lirica in due atti composta tra il gennaio e il marzo del 1833 con il librettista Felice Romani ebbe una creazione assai breve ma difficoltosa – con non poche incomprensioni e dissapori, con un ritardo nella consegna della composizione – e nonostante la sfarzosa cornice della prima rappresentazione avvenuta al Teatro La Fenice di Venezia e la presenza della famosa Giuditta Pasta quale protagonista, l’opera non riscosse successo.

L’opera Beatrice di Tenda è un dramma storico del purtroppo breve catalogo operistico di Bellini, che si ispira a un tragico fatto di cronaca avvenuto al Castello di Binasco (vicino a Milano) nel settembre del 1418, quando il duca Filippo Maria Visconti fece giustiziare per adulterio sua moglie, Beatrice di Tenda. Protagonisti della vicenda sono Filippo Maria Visconti, duca di Milano e marito di Beatrice, contessa di Tenda, Agnese di Maino, amante di Filippo ma anche gelosamente innamorata di Orombello, signore di Ventimiglia, innamorato a sua volta segretamente di Beatrice. Ingiustamente incolpati di tradimento da Agnese, Beatrice e Orombello verranno condannati a morte dal duca, dando però esempio fino al loro ultimo istante di vita della loro grandezza d’animo, perdonando accusatori e nemici politici.

Partendo dal dramma storico, il regista Italo Nunziata, affiancato da Danilo Rubeca, tenta di dare una lettura alle vicissitudini dei quattro protagonisti in una cupa atmosfera moderna, novecentesca, dove la costrizione degli ambienti soffocanti e scuri lasciano già presagire l’epilogo degli eventi, in un legame saldamente costruito su sentimenti di amore, odio, gelosia, avidità, fede.

Tuttavia a non pervenire è proprio la regia stessa, con un’assenza del lavoro drammaturgico con i cantanti, con il coro. In un dramma in cui già poco succede, il via vai continuo di movimenti senza personalizzare i protagonisti, in totale autonomia, con gestualità talvolta sciocche – come le mani mosse più volte dal Duca Filippo Maria Visconti nello scacciare o condannare la moglie Beatrice – rende poco accattivante la messa in scena di quella che poteva essere invece un’opportunità, dati i pochissimi confronti che potrebbero avvenire rispetto ad altre produzioni della Beatrice di Tenda. In questa visione poco sviluppata si inseriscono le scene cupe e decadenti di Emanuele Sinisi, che ci restituiscono un’ormai fatiscente palazzo, i fini ed elaborati costumi di Alessio Rosati e le luci di Valerio Tiberi.

A migliorare le cose interviene la lettura musicale di Riccardo Minasi, direttore musicale del Carlo Felice che felicemente evidenzia l’intenso rapporto musicale con l’Orchestra da cui trae colori e sonorità di gran pregio, esaltando una scrittura musicale ricca di citazioni e richiami a Norma e che anticipano il dramma melodico de I puritani. In un repertorio a cui è affine, Minasi sa tenere in equilibrio la concitazione drammatica che si sviluppa sul palco ed in buca, permettendo ai cantanti di sentirsi sempre sorretti ed accompagnati, lasciando spazio ai virtuosismi senza mai forzare la mano o chiedendo più di quanto la voce non possa.

Si inserisce in questo l’ottima prova del Coro, istruito dalle sapienti mani di Claudio Marino Moretti, che risulta quasi essere altro coprotagonista dell’opera a cui è dato ampio spazio e che svolge un’instancabile funzione di commento dell’azione e di ampliamento degli affetti, sapendosi far apprezzare per ottime sonorità ed una buona amalgama tra le voci, seppur sottomesso ad azioni sceniche limitate e poco realistiche (come il girotondo intorno al tavolo nel II atto).

Angela Meade, ormai artista di casa al Carlo Felice dopo i passati successi, è l’indiscussa protagonista musicale del pomeriggio, dove nei panni di Beatrice esalta la scrittura belcantistica belliniana in un tripudio di colori, di accenti, di piani e pianissimi, con un’eccezionale capacità di raccogliere i suoni, dipanandoli nella grande sala del Carlo Felice, sapendo dare varietà di intenzioni e di sfumature.

Se lo sviluppo del personaggio viene meno anche a causa di un’assenza dell’idea registica del personaggio stesso, a non mancare sono le intenzione drammatiche musicali: di struggente intensità è la scena di sortita “Respiro io qui … Ma la sola, oimè! son io” dove si susseguono una ricercatezza di colori, di sfumature, con pianissimi di delicata intimità, a cui è seguita una pirotecnica “Ah! La pena in lor piombò”. Ispirato il finale con la più nota aria dell’opera, “Se un’urna è a me concessa”, intonata con gravità d’intenzioni da parte di Beatrice pronta all’estremo addio.

Nonostante l’annunciata indisposizione, il Filippo Maria Visconti del baritono Mattia Olivieri risulta essere l’altro trionfatore vocale, cantando in maniera eccellente, con un’ottima rotondità di suono, rendendo con sapiente intelligenze le intenzioni e i vari sentimenti che affliggono l’anima del nobile marito durante l’evolversi dell’opera, costretto in un’ideale cornice che lo vede marito insoddisfatto, nobile regnante con timore di rivolte, amante di Agnese e in contrasto con Orombello, che si rivela essere innamorato della sua stessa moglie. Con voce sicura e sempre ben proiettata, Olivieri fraseggia con gusto sia nei momenti solistici che nei momenti d’insieme, dipingendo con un’immaginaria tavolozza di colori vocali in maniera ottima la scena e l’aria “Rimorso in lei?… Qui mi accolse oppresso, errante”, concludendo con irruenza con “Non son’io che la condanno”.

Suo nemico in politica e in amore è l’Orombello del tenore Francesco Demuro, altra ottima voce italiana dedita al belcanto e al repertorio ottocentesco, che si rileva ancora una volta capace di grandi prodezze vocali, sapendo interpolare alcuni acuti di grande effetto in una scrittura vocale che non prevede per il tenore una sua aria solistica. Ma se non vi è aria da solista, vi è l’incantevole “Angiol di pace”, attaccata dal morente Orombello a cui si accodano, preparandosi allo struggente finale, Beatrice e la pentita Agnese.

Ed è Carmela Remigio a dare voce e corpo ad Agnese di Maino, che abbiamo visto essere colei che, col suo tradimento, farà condannare Beatrice e Orombello. Se la Remigio ha dalla sua una sempre forte caratterizzazione del personaggio, è percepibile lo scorrere del tempo per una voce che si fa avara di colori e di sfumature, nonostante gli sforzi dell’artista di voler variare intensità di dramma e cercando, con risultati a volte discutibili, di interpolare con acuti e sovracuti la scrittura musicale a lei riservata.

Di completamento ma fondamentali nell’azione melodrammatica, gli interventi dell’ottimo e sonante Anichino di Manuel Pierattelli e il corretto Rizzado di Maino di Giuliano Petouchoff.

Affollata e nutrita la grande sala del Teatro Carlo Felice di Genova, in un alternarsi di abbonati, melomani appassionati, giovani e critica musicale per un’opera assai poco presente sui palcoscenici ed in particolare assente a Genova da oltre sessant’anni. Complimenti dunque alla direzione del Teatro nell’aver voluto affrontare questa nuova sfida che si è inserita negli appuntamenti di Genova capitale del Medioevo 2024, dato il periodo di svolgimento storico (1418).

Leonardo Crosetti
(17 marzo 2024)

La locandina

Direttore Riccardo Minasi
Regia Italo Nunziata
Regista collaboratore Danilo Rubeca
Scene Emanuele Sinisi
Costumi Alessio Rosati
Luci Valerio Tiberi
Personaggi e interpreti:
Filippo Maria Visconti Mattia Olivieri
Beatrice di Tenda Angela Meade
Agnese del Maino Carmela Remigio
Orombello Francesco Demuro
Anichino Manuel Pierattelli
Rizzardo del Maino Giuliano Petouchoff
Orchestra, coro e tecnici dell’Opera Carlo Felice
Maestro del coro Claudio Marino Moretti

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