Gita a Chelsea: la Water Music 1717 minuto per minuto

Inafferrabile come l’acqua: attraverso le edizioni parziali, le copie manoscritte, e gli arrangiamenti che la Water Music conobbe in Inghilterra fra 1725 e 1786 si può risalire controcorrente il flusso ipercritico che relegava nelle nebbie del mito le circostanze della sua composizione e perfino la nozione della sua effettiva esistenza. La nuova edizione critica di Halle identifica ben tre Water Musics, catalogate come HWV 348, 349 e 350; rispettivamente in tonalità di Fa maggiore, Re maggiore e Sol maggiore. La seconda sarebbe quella legata al notissimo episodio del 1717, l’unico per cui le fonti coeve menzionino Händel come autore delle musiche; la terza ad un trattenimento offerto dal principe ereditario Fredrick Lewis alla fidanzata Augusta di Coburgo-Gotha la sera del 26 aprile 1736. Quanto alla prima suite si propone di datarne l’esecuzione al 22 agosto 1715, in occasione di un’altra pomposa crociera reale sul Tamigi dal palazzo di Whitehall fino a Limehouse.

Il sole è appena calato quando, dieci minuti dopo le otto di sera, re Giorgio scende la scala dell’imbarcadero di Whitehall seguito da uno scelto gruppo di dame che include la sorellastra del re Sophia Charlotte, moglie del Gran Mastro di Stalla barone Johann Adolf von Kielmansegg, e la duchessa di Newcastle, sposata col Lord Ciambellano nonché Governatore della Royal Academy of Music.

I rispettivi mariti, caldi estimatori di Händel, sono impegnati ad allestire la festa che dovrà accogliere il sovrano al suo arrivo a Chelsea. Nel cerchio magico assiso intorno al re sulla tolda scoperta del barcone intagliato e dorato si scorge un solo maschio: il conte di Orkney, il Gentiluomo di Camera cui stasera tocca il turno di servizio. Non c’è il principe di Galles Georg August, in freddo col padre-padrone che da vent’anni tiene segregata la regina in un castello tedesco per storie di reciproche corna, ma intanto si mostra in pubblico con la contessa Melusine von der Schulenburg, dalla quale ha avuto tre figlie. Tutti sanno che il principe ereditario e il duca di Newcastle si sono quasi sfidati a duello durante il battesimo del primo nipotino del re, perciò nessuno si meraviglia di quell’assenza.

Mollati gli ormeggi, i rematori vogano appena quanto basta per tenere la prora a filo di corrente. Alle 8.24, in perfetto orario sulle tabelle calcolate dal Reale Osservatorio di Greenwich, comincia a martellare la campana del London Bridge. Fra una quindicina di minuti la possente ondata di marea, partita tre ore prima dall’estuario del Tamigi, giungerà anche qui al suo culmine di tre metri e mezzo sopra lo zero idrografico, e allora per risalire il maestoso fiume non ci sarà più bisogno di remi.

Un piccolo convoglio si sta formando a poppa. Sul tratto che da Whitehall discende verso sud restringendosi un poco, e dove ancora nessun ponte ostacola la navigazione, il Tamigi è coperto d’imbarcazioni d’ogni tipo e stazza: barchini di pescatori, veloci lance militari, panciuti battelli da carico, lussuose barche da diporto. Dalla folla assiepata sulle banchine di Westminster si levano grida di “God save the King!”. “Hoch, hoch, hoch, durchlautiger Herr!”, tuonano gli ufficiali dei reggimenti di Hannover sguainando le spade nel saluto. Dietro il lume della luna al primo quarto si profilano tre imponenti sagome gotiche: l’Abbazia dove i re d’Inghilterra ricevono corona e sepolcro, l’Alta Corte che li giudica e talvolta li esilia o decapita, le due Camere del Parlamento — i Pari e i Comuni — dove un branco di politicanti rissosi lavora ad erodere il potere regio con disegni di legge, veti, tagli di bilancio.

A Giorgio, che nel suo elettorato di Hannover regna da sovrano assoluto ma qui deve fare i conti con un primo ministro costituzionale, quel panorama guasta di colpo l’umore. Preferisce girare l’occhio verso la sponda opposta; del resto la Londra del 1717 praticamente termina qui. Comincia ora una distesa di campi coltivati, praterie paludose e giardini, appena punteggiata da qualche rado sobborgo, da qualche villa. Nell’oscurità che avanza risuonano nuove grida: “Vivat Rex, vivat defensor Fidei!”: sono i chierici dell’arcivescovo di Canterbury che ha fatto illuminare con centinaia di fiaccole le torri quadrate del suo grandioso palazzo di Lambeth. Già; perché Giorgio primo, vecchio soldato del cattolicissimo imperatore di Vienna benché nato e cresciuto nella confessione luterana, è ora anche capo visibile dell’Alta Chiesa d’Inghilterra; quasi un antipapa. Sentirselo ricordare gli fa sempre uno strano effetto.

A un cenno del conte di Orkney, dalla seconda barca del corteo si alza un fragore di orchestra che accorda. Sono una cinquantina di eroi del doppio o triplo impiego: Chapel Royal, King’s Musicians, guardia di palazzo, banda civica, teatri; tutto il fior fiore della professione. Si odono note di trombe e archi, di corni, oboi e fagotti, di flauti diritti e traversi, rulli di timpano. Un istante di silenzio, poi il maestro batte il tempo con la mazza e si levano i primi accordi di una pomposa ouverture alla francese.

Davanti al giardino di Vauxhall i gaudenti che ogni notte ingurgitano birra e carne salata ai tavoli di un rustico locale si affollano ad ascoltare in compagnia delle loro mercenarie compagne. Quel peccaminoso Vauxhall, di cui cinque anni prima un articolo di Addison sullo “Spectator” si augurava che tornasse ad ospitare “più usignoli e meno baldracche”, è un punto critico anche per i naviganti, giacché qui il Tamigi disegna una brusca ansa a gomito verso ovest. La musica cessa per un poco mentre rematori e timonieri fanno ogni sforzo per effettuare una bella virata morbida; poi riprende, ma davanti alle fattorie di Nine Elms termina con un energico minuetto a suon di tromba.

Il re parla brevemente al conte di Orkney e questi, rivolto verso la barca dei musicanti, grida: “Encore!”. Händel allarga le braccia: per questa volta non ha scritto altro. Ma il conte continua a fare cenni disperati, e allora si riattacca da capo con l’ouverture, e via, e via, finché non si scorge la lanterna del molo di Chelsea.

Manca poco a mezzanotte, la luna è tramontata. Gl’illustri ospiti sono attesi a cena nella gran sala della villa sul fiume che, ai tempi della regina Anna, Lord Ranelagh si era fatto costruire con le 900mila e passa sterline frodate alla cassa dell’esercito. Musici e marinai tutti a mangiare in cucina col resto del servidorame, mentre i nobili si accomodano con calma al suono di un’orchestrina da ballo e restano a tavola fino alle due di notte aspettando che la marea cambi verso. Paga il barone Kielmansegg; magari in vista di un rimborso reale che non riuscirà ad intascare perché entro l’anno passerà a miglior vita.

Intanto il re è rimasto soddisfatto. Dopo il dessert — cui si degna di ammettere il suo indocile compositore di corte, che in fondo è figlio di un medico, dunque quasi un gentiluomo — fa i complimenti a tutti e conclude ordinando ad alta voce: “Die ganze Musik nochmals spielen lassen!” In inglese ancora zoppica, ma non c’è bisogno di tradurre; vuole riascoltare tutto da capo.

Alle tre il corteo riparte, stavolta a favore di corrente e in coda al riflusso di marea. Il fiume è ormai sgombro; i rematori, rinvigoriti dalla cena e dal gin, vogano in cadenza serrata e il viaggio di ritorno è velocissimo: poco più di un’ora, durante la quale c’è appena il tempo di risentire tutta la suite bissando un paio di pezzi a scelta dell’augusto melomane che notoriamente soffre d’insonnia. Fino a Westminster le dame sonnecchiano avvolte in ampi scialli di cachemire, ma le trombe e i timpani del minuetto in re maggiore le risvegliano di colpo quando è in vista l’imbarcadero di Whitehall, fine della corsa.

Verso le quattro e mezza di giovedì 18 luglio le portantine entrano nel cortile di Palazzo Saint James e ognuno si affretta verso il letto. Solo l’ambasciatore di Prussia Friedrich Bonet, che ha partecipato alla festa anche per sondare gli umori di re Giorgio, suocero del suo sovrano, siede ancora alla scrivania per stendere una relazione. Il suo racconto della gita a Chelsea si rivelerà perfino più accurato del trafiletto comparso il giorno dopo sul “Daily Courant”.

Carlo Vitali

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