Il collasso dei paradigmi. Alberto Triola e il futuro del teatro
Tra i più importanti manager culturali d’Italia, Alberto Triola è Direttore artistico del Festival della Valle d’Itria a Martina Franca e Sovrintendente e direttore artistico dell’Orchestra Toscanini di Parma, oltre ad aver ricoperto ruoli organizzativi presso istituzioni quali il Maggio Musicale Fiorentino, il Festival dei due mondi di Spoleto, il Teatro alla Scala di Milano, il Teatro Carlo Felice di Genova, il Teatro Ponchielli di Cremona, la Fondazione Pergolesi Spontini e numerose altre.
È a Martina Franca che lo incontro, alle prese con la sfida di una ripartenza musicale in un programma interamente dedicato al mito di Arianna partendo dalla lettura di Richard Strauss e Hugo von Hofmannsthal.
- Vorrei cominciare con una grande domanda: mentre moltissimi festival in tutta Europa hanno scelto di annullare la programmazione estiva e in alcuni casi anche autunnale, Martina Franca ha deciso di esserci. Perché?
La domanda è complessa. Naturalmente la risposta non può essere semplificativa o banale, ma provo a riassumerla: il Festival della Valle d’Itria è un festival stra-ordinario, nel senso etimologico del termine, senza che questo comporti meriti particolari. Nel senso che 46 anni fa ha scelto, e poi difeso, una visione temeraria, ossia far nascere un festival nel cuore del mezzogiorno, in un punto difficilissimo da raggiungere (ancora oggi, figuriamoci negli anni ’70!) vocandolo alla ricerca e alla proposta di ciò che non è repertorio. In un anno in cui teatri e orchestre sono stati costretti al silenzio per mesi è venuto meno il ruolo principale del teatro, ossia dare uno spazio a una comunità, una collettività, per ritrovarsi fisicamente insieme e ascoltare proposte e a volte provocazioni. Il paradosso è che sono quelli i luoghi che, come e più di altri, sono chiamati a tenere le fila della comunità, a erogare valore e contribuire a riflettere, a guardarsi dentro, a non sentirsi soli. È proprio nei momenti difficili, in cui la storia sembra interrompere il suo passo ordinario, che i teatri dovrebbero assolvere ancor di più alla loro funzione. Purtroppo, sempre più spesso, il teatro viene presentato e progettato come luogo di intrattenimento, divertimento, diversivo. Ebbene, Martina Franca non ha mai seguito questa chimera e ha sempre difeso il suo ruolo di ricerca e dibattito: non poteva non farlo quest’anno. Quindi quando nel cuore del lockdown ho avuto di fronte l’immagine dei prossimi annali del Festival, immaginare di leggere «Festival cancellato» nel 2020 sarebbe stato arrendersi alla disfatta, rinnegare il proprio ruolo per la prima volta. E abbiamo deciso di farlo comunque e non tanto per fare, ma di trovare un tema forte che facesse da megafono per quella funzione di cui ho parlato.
- Tema che si è concretizzato nel filo di Arianna. Come si è arrivati a quest’idea?
È una storia singolare che ho potuto osservare una volta che la preoccupazione e l’ansia da prestazione mi hanno finalmente lasciato guardare il progetto. Quando hai di fronte un foglio bianco è difficile, lo sappiamo, ma il foglio bianco per me era a maggio. Per luglio. Il primo passo è stato allora non farsi limitare dai vincoli, ma trasformarli in alleati. Così abbiamo scelto due opere con un organico contenuto, senza intervallo, possibilmente senza ricorrere necessariamente ad artisti stranieri (perché in quel momento i voli erano impensabili). L’equazione si fa presto: Ariadne auf Naxos, il capolavoro di Strauss, e il Borghese Gentiluomo che nasce insieme a lei. A Martina Franca però siamo abituati a fare riscoperte, non a maneggiare i grandi capolavori, che non hanno bisogno di questo festival. Inoltre Ariadne auf Naxos è un’opera tedesca scritta per voci tedesche che maneggiano la parola e la lingua con la disinvoltura necessaria per un’opera in cui il rapporto Ton und Wort è fortissimo. Come uscire da questa impasse? Atto di fede, di coraggio e forse anche criticabile: facciamo l’Ariadne in italiano. L’edizione del ’27, quella approvata da Strauss, è però oggi improponibile, è un italiano troppo distante, quindi abbiamo deciso di rifarla da capo e abbiamo chiesto al massimo esperto, Quirino Principe. Insomma, ad ogni sfida abbiamo cercato tra le possibili risposte quella più ambiziosa.
- E qual è il bilancio di quest’operazione?
Devo dire col senno di poi che, al netto di tutto quello che viene perso (ed è tantissimo, non ha senso nascondersi), questa versione italiana ha riservato molte sorprese. Certo, può far inorridire e come inorridiamo a sentire Traviata cantata in inglese, non vedo perché non inorridirsi per Ariadne in italiano. Però quand’ho sentito cantare sulla lingua italiana, con la sua vocalizzazione, la sua fonetica e la sua linea la musica di Strauss, in certi momenti ho ascoltato una musica che mi pareva nuova, con una verginità di ascolto che portava una nuova attenzione. Secondo beneficio: io tutte le volte che ho sentito un’Ariadne auf Naxos in teatro, quando arriviamo al finale ed entra Bacco col suo «Zirze, Zirze», cominciano a torcermisi le budella perché questo Heldentenor tedesco sembra veramente ciò che qualcuno di molto più grande di noi definì «l’urlo del cappone sgozzato». Una parte quasi incantabile. E invece ascoltando Piero Pretti l’impressione che ho avuto (e che ha trovato numerosi riscontri) è stata che la lingua italiana, con la sua tecnica anche, pare rendere quella parte molto più facile. Improvvisamente niente più torci-budella per una voce strozzata, in difficoltà su una tessitura ingestibile. Invece Carmela Remigio, Arianna, sulla carta non parrebbe il soprano tedesco, drammatico, con il vocione, cui siamo abituati. Eppure ci sta regalando un’introspezione, una delibazione parola per parola, che da un lato mette in risalto l’andamento, la curvatura morbida della musica di Strauss, dall’altro rende giustizia a quella visione intima e cameristica che il compositore desiderava. Quello che sto dicendo non vuole giustificare una scelta che, come ogni scelta, lascia sul campo qualcosa. È stato un passo forse obbligato, ma alla fine si sta rivelando più interessante di quanto non si pensasse. Inoltre, sempre per essere fedeli al valore di riscoperta del Festival della Valle d’Itria, abbiamo scelto la versione del ’12 dell’Ariadne e quella del ’17 del Borghese.
- Come si è costruito il Borghese gentiluomo, invece?
Per il Borghese abbiamo fatto tutt’altra operazione: essendo impossibile recuperare Hofmannsthal o Molière abbiamo cercato di trasformare di nuovo il limite in opportunità e di realizzare uno spettacolo al cubo. Come Hugo von Hofmannsthal aveva posto una lente ironica su Molière, che già a sua volta l’aveva posta rispetto alla satira sulla corte che al contempo incensava e irrideva, così anche noi abbiamo posto un’ulteriore lente che in qualche modo parlasse di oggi, di noi. E quindi mettesse in evidenza quello che è il ruolo dell’arte, dell’artista, della creatività, prospetticamente nel corso della storia. Sappiamo cos’era al tempo di Molière, ma oggi, 350 anni dopo, l’arte che ruolo ha? Nel mondo post Covid, dopo tutto ciò che abbiamo letto tra polemiche, drammi, problemi economici, ma anche di ruolo, tutta la comunità di coloro che hanno scelto di vivere producendo bellezza e riflessione al servizio della collettività, come si sente? Si sente come Arianna abbandonata, come anime senza cittadinanza, come parassiti. Abbiamo quindi chiesto a Stefano Massini, la cui voce si è ritagliata un ruolo di civile orazione per così dire, di esplicitare questo percorso in un’operazione che mettesse in luce i nervi scoperti. Mi sembrava più interessante che riproporre una riduzione di Molière o raccontare la trama della commedia. Ne è uscito un prodotto certamente complesso, perché le musiche del ’17 sono frammentarie, e quello che ha fatto Davide Gasparro è stata un’effettiva mise en espace, che però è un tocco di estrema aderenza al sentimento di frastornamento, paura e disorientamento che abbiamo vissuto tutti.
- Da questo vorrei muovermi. Abbiamo vissuto uno shock collettivo di cui, anche quando ci riprenderemo, porteremo delle profonde cicatrici nella società in cui viviamo. Da questo punto di vista, qual è il taglio che secondo lei dovrà avere l’organizzazione musicale nei prossimi anni?
È una domanda da un milione di dollari, penso ne parleremo per i prossimi decenni. Perché io sono convinto di questo: è successo un finimondo, è collassato un sistema di certezze in cui ognuno aveva le sue, come sistema, come comparto, come individuo. E nei momenti di grande crisi bisogna alleggerire lo zaino, ossia discernere e scegliere cosa ormai è inutile e che era già superfluo prima, probabilmente, e cosa è essenziale e sostanziale per non perdere di senso. Siamo però ora in un momento di shock per cui la polvere non si è ancora deposta, è difficile vedere oltre e chi pensa di avere le soluzioni in tasca è un ciarlatano. Adesso è il momento di reagire sull’immediato, non far zittire la musica e i teatri, inventarsi qualunque modo per dare un segnale di esistenza e resistenza, ma quello che succederà tra uno, due, cinque anni, oggi è impossibile a dirsi. Seconda considerazione: come tutti i momenti di drammatica crisi, la discontinuità ha traumaticamente rotto la routine che ormai dominava il far teatro, concepire le stagioni, i progetti, i prodotti, i pacchetti. Tutto era diventato molto abituale, ripetitivo, fino ad essere ripetitivi nei titoli, nelle proposte. Non avevamo più un canone, ma un calco, un timbrino. Tutto questo viene ora spazzato via. E può essere un bene.
- Ne è sicuro? La risposta di molte istituzioni è stato proprio tornare ai grandi classici per ragioni di botteghino.
Ad essere onesti la prima risposta di molti è stata «Stiamo chiusi, che tutto sommato non è poi così male». Poi ovviamente io mi riferisco a ciò che dovrebbe essere, all’ideale, la realtà oggi è ben più avvilente. Però qualcosa è già entrato in crisi, banalmente le disposizioni fisiche dell’orchestra. Abbiamo visto suonare sinfonie di Beethoven con leggii separati, quindi enfatizzando anche visivamente il ruolo e la responsabilità di ogni singolo musicista. Nel momento in cui ognuno ha il suo leggio e la sua parte, in qualche modo dialoga con il direttore come solista nel gruppo, rompendo un’abitudine e anche una comodità. In Fondazione Toscanini abbiamo immediatamente proceduto a smontare l’orchestra, incentivando il repertorio cameristico, rendendo la proposta più capillare e portandola letteralmente sotto le finestre e le terrazze dei cittadini. Ieri sera, tanto per dirne una, la Toscanini si è esibita in quattro località dell’Emilia Romagna contemporaneamente, con quattro programmi diversi per pubblici diversi. Questo prima non era pensabile. Dopodiché, terza considerazione, siamo proprio sicuri che le modalità produttive e fruitive del prodotto teatrale e musicale siano destinate ad essere immutabili? Semplificando moltissimo, abbiamo vissuto tre modelli di teatro, inteso come luogo architettonico: il teatro delle origini, il teatro di corte e poi il teatro pubblico all’italiana. Declinazioni diverse e sempre più codificate di un’intuizione radicale e semplice, ossia un’adunanza all’aperto in un luogo che favorisse lo scambio di parole, musica e canto. Noi siamo abituati da secoli che il teatro è quello, ma la storia è capricciosa e imprevedibile, con delle discontinuità che possono lasciarci tramortiti sul momento, cui però ci si adatta perché tutto può essere reinventato. Quindi mi chiedo se non sia arrivato il momento di pensare e dare stimolo ad un dibattito che durerà decenni su quale sia l’edificio teatrale del futuro.
- Quest’idea che le cose siano immutabili, che siano sempre state così e così debbano così essere per sempre è però molto recente: basti pensare all’evoluzione che c’è stata nelle forme di fruizione musicale che hanno raggiunto una codificazione attuale lo scorso secolo, anche organizzativa con la nascita del ruolo del sovrintendente, come ci insegna la figura di Gatti Casazza che lei conosce molto bene.
Esattamente! E anche noi eravamo convinti di essere in un mondo perfetto, pacifico, in cui le malattie erano state in gran parte sconfitte. Quello che è collassato è tutto un paradigma. E tornando alla realtà, perché poi bisogna fare i conti con la realtà di ogni anno e di ogni bilancio, cosa bisogna fare dunque? Un passo fondamentale per il futuro penso sia recuperare e ridare dignità al ruolo professionale del direttore artistico. Chiamalo progettista culturale, chiamalo operatore culturale, colui che è formato e armato per competenze, per studi, maturazione di percorso, sensibilità, cultura, passione a ideare, concepire, elaborare, metabolizzare delle visioni, delle intuizioni di contenuti culturali, è estinto o quasi nei modelli di produzione. Negli ultimi decenni questa figura è stata sovrascritta, perché percepita come superata, superflua, a volte velleitaria e questo senza nulla togliere alla necessità di avere grandi manager che debbano far quadrare i conti, gestire e amministrare in modo rigoroso, oculato e sapiente delle aziende che spendono in gran parte soldi pubblici. Si è però perso di vista un elemento fondamentale, che è proprio il progetto, la visione artistica, che non è soltanto la scelta di un titolo o di un cantante, ma la capacità di previsione e di ideazione, frutto di un’elaborazione di un sedimentato, di un vissuto, di un assorbito che viene dal passato ma è continuamente digerito e filtrato attraverso l’oggi, per essere oggi riproposto. Questo è ciò che fa un direttore artistico: è colui che nel migliore dei casi, con tutto questo rumine cui attingere, è in grado di prendere dall’iperuranio un’intuizione e portarla avanti.
- Proprio su questo andrei verso la conclusione con un’ultima domanda: di cosa c’è e ci sarà bisogno per i giovani che si muoveranno in questo ambito dell’organizzazione musicale e che partono da un 2020 che non è un incidente di percorso, ma quasi un anno zero?
Allora, bellissima domanda. Credo che oggi più che mai sia necessario investire in nuove figure, nuove leve di professionisti. Paradossalmente quando io mi sono avvicinato a questa professione non esistevano scuole per formarsi e i miei maestri, che sono stati tra gli ultimi grandi direttori artistici del Novecento, mi hanno sempre ripetuto che è un mestiere che si impara sul campo. Questo è il paradigma novecentesco, tramandatomi da figure quali Cesare Mazzonis in una Milano che profumava ancora di Paolo Grassi. E in parte è vero, si impara sul campo. Poi, però, il sistema universitario italiano ha scoperto la figura dell’organizzatore culturale e un numero enorme di giovani ha iniziato a studiare questo aspetto nello stesso momento in cui sparivano queste figure dai teatri. E si sono chiamati dirigenti e manager dal mondo dell’industria e della finanza per dar loro in mano la gestione dei teatri, accompagnati da titoli del tipo «Finalmente arriva il grande manager che risana i conti e vuole finirla con gli sprechi». Per carità, giustissimo, però poco alla volta si è diffusa quest’idea per cui un direttore artistico non serva. Al massimo mettiamo un consulente.
- Penso sia anche parte di quel percorso di mitizzazione del privato, del grande manager.
Non c’è dubbio, assolutamente. Il problema è che abbiamo formato molti giovani, e ne ho conosciuti diversi di estremamente preparati, competenti, appassionati, con sensibilità, ma abbiamo svuotato i teatri degli spazi destinati a queste persone. Ora secondo me non è necessario, ma è una priorità assoluta, dovrebbe esserlo proprio per dispositivo di legge!, creare spazi occupazionali nel preciso ambito della progettazione artistica, dentro a strutture pubbliche o assimilate, che diano in primo luogo possibilità occupazionali a nuove generazioni di progettisti che hanno studiato, sanno cos’è un progetto culturale e sono figli di questi tempi. Perché è da loro che ci aspettiamo la risposta che lei si aspettava da me. Io ho 55 anni, per carità, spero di averne ancora una ventina per dare il mio piccolo contributo, ma sono quelli che oggi hanno 27, 28, 30, 32 anni, quelli destinati a gestire quest’emergenza nel futuro. È questa generazione che deve trovare le soluzioni. Però bisogna lasciargli posto, creare una bella task force di giovani menti che abbiano studiato teatro, che abbiano studiato musica e che possano contribuire a trovare la rotta da seguire. Lei mi ha citato Gatti Casazza e mi ha fatto molto piacere: quando il sindaco di Ferrara gli disse che era la persona giusta per gestire il teatro della sua città, Gatti Casazza aveva 24 anni. E alle sue obiezioni sull’essere troppo giovane per quel ruolo, il sindaco gli rispose che gli avrebbe dato ragione solo se avesse trovato un motivo per cui la sua giovane età fosse un limite e non un’opportunità. Credo che questa dovrebbe essere l’idea anche a livello ministeriale, bisognerebbe creare una comunità di ingegni freschi e dirgli: «Benissimo, questi sono i vincoli, questi gli obiettivi, questo il contesto, disegnate il teatro del futuro». Perché se andiamo avanti con i modelli che abbiamo visto negli ultimi vent’anni, tutto ciò che potremo vedere a teatro è il cartello “Chiuso”. È il momento di cambiare.
Alessandro Tommasi
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