Il destino della Corazzata. Storie di Amazzoni e altre vergini guerriere
Come sempre Monteverdi aveva già inventato tutto: “Diedi di piglio al divin Tasso”, e per trovarci che cosa? Un cristiano innamorato di una vergine musulmana che si fa ammazzare e poi battezzare da lui in un duello notturno. Fremiti di ambigua fisicità in quei “nodi tenaci” ansimanti di sincopi; delizioso orrore di dettagli tradotti in musica con un paio di reticenti inflessioni cromatiche. “Spinge egli il ferro nel bel sen di punta,/ che vi s’immerge e il sangue avido beve;/ e la veste che d’or vago trapunta/ le mammelle stringea tenera e lieve/ l’empie d’un caldo fiume […]”. Sotto la corazza, la sottoveste ricamata s’inzuppa di sangue; che classe il Made in Italy! Operina da camera datata Venezia 1624, Il Combattimento di Tancredi e Clorinda anticipa fra l’altro il destino perlopiù funesto della Corazzata melodrammatica. Così chiameremo per brevità la donna che non accetta il proprio ruolo subordinato sciogliendoci su qualche memorabile lamento prima di morire (tipo Arianna, Didone o Butterfly), ma prende le armi e combatte. Letteralmente.
L’opera in musica ha da poco compiuto quattro secoli, nel corso dei quali tante eroine in armatura hanno deliziato il pubblico con le più inverosimili peripezie: pseudostoriche, mitologiche, erotiche, mistiche. Ripercorrere il destino della Corazzata, sia pure per brevi cenni, equivale a rifare l’intera storia di un genere di spettacolo fondato sul patto di rinuncia alla verisimiglianza. Così sarà poco utile indagare sull’effettiva esistenza storica del popolo delle Amazzoni, archetipo classico della Corazzata. Il loro regno era sul Termodonte, fiume dell’Anatolia identificato con l’odierno Terme? Si amputavano una mammella per combattere meglio? Uccidevano tutti i figli maschi generati da amplessi utilitaristici coi popoli confinanti? Parteciparono alla guerra di Troia? Tentarono davvero di espugnare Atene?
Quella che espugnarono di sicuro fu la scena operistica veneziana e poi italiana a partire dal 1645 con la Doriclea di Cavalli, allievo di Monteverdi, su libretto di Giovanni Faustini. Per tutto il Seicento all’opera dilagano le Amazzoni, sole o a battaglioni; spesso tali solo per estensione analogica come Veremonda, l’amazzone d’Aragona (ancora Cavalli, 1652). La voga continua per tutto il secolo successivo su scala paneuropea, tanto che Dinko Fabris, il quale, crediamo per difetto, offre la stima di una trentina abbondante di titoli fino al 1798, può affermare: “le amazzoni possono essere corsare, «di buon genio», moderne, campionesse del celibato e della cattolica fede e, ovviamente, vinte da Ercole”.
Vivaldi, che dal 1716 al 1732 esportò fino a Praga quattro rifacimenti della Doriclea con titoli sempre diversi, firmò anche una vetta dello straniamento barocco in materia amazzonica: L’Ercole su ‘l Termodonte RV 710, ripreso alla Fenice nella stagione 2006-7. Il libretto, del medico-poeta fiorentino Antonio Salvi, tratta la nona delle dodici canoniche fatiche di Ercole, la spedizione dei principi greci contro le temute guerriere onde sottrarre le armi e la cintura della regina Antiope. Dettaglio intrigante: nelle lingue classiche l’eufemismo “sciogliere la cintura” a una donna (ζώνην λύειν, zonam solvere) significa deflorarla… Sconfitte in battaglia, le Amazzoni vivaldiane vengono “civilizzate” e ne segue una serqua di nozze con benedizione finale di Diana. Tutto in regola. Ciò che di fatto videro gli originali spettatori del 1723 al Teatro Tordinona di Roma fu una banda di sette castrati — parte in pennacchi e gonnellini “all’eroica”, parte travestiti da Corazzate — a gorgheggiare in registro di contralto e di soprano intorno a un unico tenore: il macho Ercole portatore di clava. Il tutto per obbedire al codice morale dei teatri romani che proibiva alle donne di mostrarsi in scena. Bel caso di eterogenesi dei fini, specie pensando che l’orchestra era diretta dal compositore in persona: Don Antonio Vivaldi, prete senza Messa ma armato del suo magico violino.
Eppure, tutto sommato, il secolo operistico più women-friendly resta sempre il galante e razionalista Decimottavo. Ne è garanzia l’obbligo pressoché totale del lieto fine anche nell’opera seria. Caso limite è Talestri regina delle Amazzoni (Nymphenburg, 1760), poco eseguita ma disponibile su CD. Libretto di una vera sovrana: Maria Anna Walpurgis di Baviera, elettrice di Sassonia; musica in gran parte sua, forse con una mano di aiuto del suo Kapellmeister di corte Giovanni Ferrandini. Si pensa che la pace finale fra Sciti e Amazzoni sia un manifesto del buon governo riformista e pacifista instaurato dall’augusta signora nei suoi domini.
Specialista nel varo di Corazzate vincenti è l’arcade romano Silvio Stampiglia, autore di due libretti musicati decine di volte da Napoli a Londra e fino a Città del Messico: Partenope e Il trionfo di Camilla regina de’ Volsci (Vinci, Leo, Porpora, Bononcini). Prendiamo l’atto secondo della sua Partenope (41 intonazioni in 57 anni; la più illustre da parte di Händel, Londra 1730). Emilio, principe di Cuma, vuole guadagnare in battaglia la mano della fondatrice di Napoli. “Ma le nemiche squadre/ Partenope conduce? Ah! Non ardite/ tingere il ferro in quel bel seno”. Con simili regole d’ingaggio la sconfitta è sicura. La Camilla di Stampiglia sbaraglia Latino e ne sposa il figlio Prenesto dopo averlo salvato da un cinghiale, mentre per Virgilio moriva vergine, trafitta al seno dal dardo di Arrunte: “hasta sub exsertam donec perlata papillam/ haesit virgineumque alte bibit acta cruorem”. Sì, questa del seno trafitto e del sangue bevuto alla fonte del latte sembra una tipica fissa sadica dei poeti maschi. Forse per vendicarsi di svezzamenti traumatici o altri abusi subiti dalla Madre Malevola, la quale beninteso esiste pure nella realtà.
La saga medioevale delle donne guerriere di Boemia è ripresa con molta serietà da dotti umanisti come Enea Silvio Piccolomini (poi papa Pio II) e Jean Tixier de Ravisi, che nelle sue biografie di donne illustri stampate a Parigi nel 1521 ricorda “Valasca Bohemorum regina”, governante “alla maniera delle Amazzoni”. Per Enea Silvio, ad inquadrare militarmente le femmine boeme era stata proprio Libussa, la fondatrice di Praga. Morta lei, la sua luogotenente Valasca (o Vlásta) tentò di preservare il matriarcato con misure quali l’accecamento dell’occhio destro e il taglio del pollice ai ragazzini, così che da grandi non potessero mirare con l’arco o impugnare la spada. Con qualche variante più sentimentale, la storia di Šárka che si vendica sull’arrogante cavaliere Ctirad facendolo ubriacare d’idromele e poi trucidando lui e il suo seguito, rientra nello stesso filone. Nei dintorni di Praga si mostra ancora ai turisti la roccia del “Salto della Vergine”, donde l’amazzone boema avrebbe messo fine ai suoi giorni dopo aver consumato la sua vendetta sui maschi. Nell’elaborazione operistica di Janáček (1925), Šárka è tutt’uno con Vlásta, e alla fine si getta sul rogo di Ctirad, da lei follemente amato, per placare il rimorso di averlo ucciso nel corso di una guerra civile fra i sessi.
Riesca o meno a vendicarsi, la Corazzata non evita di regola la pena per la sua devianza. O morte di spada, o fuoco purificatore, o nozze riparatrici. O magari una combinazione di queste iatture. La più scalognata di tutte è la wagneriana Brünnhilde: due soggiorni volontari tra le fiamme (la prima in un coma profondo durato circa vent’anni, la seconda con esito rapido e fatale); nell’intervallo un matrimonio breve quanto infelice con un eroe smemorato che vorrebbe fare di lei una bigama. Da quando l’emancipazione ha tarpato le ali alla galanteria barocca e rococò, alle Corazzate moderne non resta scampo. Se la cava appena Odabella nell’Attila, liberando la patria a prezzo di uxoricidio. Fra le altre colleghe verdiane abbiamo: Abigaille fulminata da Jehovah (Nabucco), Giselda orbata del suo Oronte a pregare da Dio una rapida morte (Lombardi), Giovanna d’Arco sul rogo fra cori di angeli e demoni. Bella forza! Lo voleva la Storia, cui si accodano disciplinati Čajkovskij (Orleanskaja deva, 1881) e Honegger (Jeanne d’Arc au bûcher, 1938). L’ultima verace Amazzone avvistata in scena, salvo errore, è la Penthesilea nell’omonimo atto unico (Dresda 1927) dello svizzero Othmar Schoeck. Si crede tradita da Achille, lo uccide con una freccia e lo dà in pasto ai cani; ma poi, ravveduta, si pugnala sul cadavere di lui. Un librettaccio da epigono di Strauss, che il compositore tirò giù da Kleist. Non era per caso meglio “il divin Tasso”?
Carlo Vitali
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