Intervista a Maurice Béjart: un passato attualissimo

In occasione della recente tournée italiana del Tokio Ballet, con un doppio appuntamento al Teatro Alla Scala, ripubblichiamo l’intervista che Maurice Béjart rilasciò nel 2004 ad Elsa Airoldi per il Corriere del Ticino e che presenta aspetti assolutamente attuali, oltre che notevoli spunti di riflessione.

Torino, Teatro Regio

Ha segnato mezzo secolo di costume teatrale. Ha firmato affreschi grandiosi per consegnarli agli eroi del Ballet du XXe Siècle, profeti di un nuovo verbo e fulgidi conquistatori dei teatri dal mondo. Ha alternato messaggi ispirati ai grandi temi dell’arte e del pensiero a creazioni intimiste. E passato dall’astratto al narrativo, dalla musica romantica al Concreto dei due Pierre del Novecento: Henry a Shaeffer. S’è rivolto sempre (con la recante eccezione del Tokyo Ballet) ai ballerini delle sue “’compagnie” miracolosamente a da subito béjartiani nei corpi e nelle menti. Ha esaltato la possente danza maschile contrapponendola alla filigrana dei disegni femminili.

Maurice Béjart: questo e altro.

La sua danza, sulle prime specchio dei venti parigini dell’’epoca delle caves esistenzialiste coma dei lustrini dell’Olympia, ha trovato presto la cifra unica e inconfondibile di una poetica innervata ora dalla magnificenza barocca a propriamente teatrale e ora da una sorta di minimalismo. Le due facce
delle filosofie più sue, induismo e zen. La sua prepotenza creativa pulsa soprattutto in due titoli cronologicamente vicini e determinanti per i giorni che verranno. Il Sacre chiesto da Bruxelles nel ’59 e causa prima della grande avventura chiamata Ballet du XXe Siècle (appoggiato al teatro della Monnaie) e Bolero, il suo biglietto da visita l’opera prima di Bruxelles. Orgiastico e collettivo il Sacre stravinskijano, individualista il Bolero su Ravel. Inno all’amore il primo e all’Eros il secondo. Béjart lega il nome a poche compagnie. La prima è Le Ballet de l’Etoile (’53/54) che nel ’57 assume la dicitura di Ballet Theâtre de Paris. La seconda, del ’60, il Ballet du XXe Siècle, che sarebbe rimasta “la” compagnia se non fosse per una fragorosa frattura con la locale municipalità. Da cui poi il trasferimento in Svizzera e la fondazione nell’87 del Béjart Ballet Lausanne, i1 gruppo attuale. In mezzo spettacoli con i ragazzi delle sue scuole interdisciplinari. Il Mudra (Bruxelles) e il Rudra (Lausanne). II Rudra, per pochi mesi, è stata la Compagnie M presto chiusa per mancanza di mezzi. Sui primi del Novanta Maurice “adotta” il Tokyo Ballet cui consegna molti diritti tolti ad altri e per il quale, la prima volta con danzatori non forgiati da lui, crea.

Adesso Béjart compie cinquanta anni di compagnia e li festeggia con un tour che mette assieme molto ieri, un po’d’oggi e qualche titolo di domani. E’ facile incontrarlo nei teatri, disponibile e sorridente. Come avviene a Milano dove il Tokyo, a sua volta in giro con un tutto Bajart, è impegnato nel fulgido esotismo di The Kabuk. Ma un colloquio a tu per tu e tutt’altra faccenda. Uno ripercorre tutto quello cha ha pensato in decenni di stupefatta ammirazione. Si riempie la testa di domande. E sul più bello lui non c’è. E se c’è diventa una caccia al tesoro che termina nel più singolare dei modi. Quando, dopo contrattazioni levantine, Madame Jaccard, suo inflessibile custode elvetico, spalanca di colpo la porta del camerino dove lui riposa su un divano. Forse dorme. Forse non ci aspetta. Forse non ci riconosce. II tempo è poco, l’imbarazzo tanto. Ma Maurice, ormai lontano dall’allure mefistofelica dei primi anni vissuti da ballerino e tuttavia identico a sé stesso per quegli occhi azzurri e penetranti che il padre eterno pare aver inventato per lui, sta al gioco.

  • Quanti minuti?

Cominciamo.

  • Lei ha chiuso il tour italiano con Presbytère: nostalgia di giovinezza, struggimento per quelli, troppi, che non ci sono più. Ad iniziare da Jorge Donn, sua musa, suo dio, suo tutto. Cosa ci sarà dopo?

II passato non esiste, io vivo l ‘ oggi e guardo sempre avanti. Non faccio mai progetti per più di un anno. Dopo ci sarà quello che verrà. Per Lille, capitale della cultura 2004, sto realizzando una grande produzione, Naissance su musica di Pierre Henry. Debutta il 25 novembre. Per la Scala, a fine settembre, un piccolo spettacolo con i giovani della mia compagnia.

  • Quel “dopo” intendeva essere esistenziale?

Continuerò a realizzare coreografie. E’ il mio lavoro. So fare solo quello.

  • Perchè la danza è l ‘espressione del XX secolo?

Il suo linguaggio e l’unico che può essere capito da tutti.

  • Come mai lei, che ha studiato musica, filosofia, letteratura, e figlio di un padre filosofo seguace del sistema Vedānta ha scelto la danza?

Per me, per il mio gruppo, perché sento che è il mio lavoro.

  • La sua danza è inconfondibile a diversa. Cosa la ispira?

Il canto dionisiaco della Grecia e del Mediterraneo, i1 silenzio della filosofia zen. Il tripudio barocco dell’’ induismo, la ‘bellezza…

  • Crea per sé o per gli altri?

Tutti gli artisti si cercano attraverso la loro arte.

  • C’è state un momento, il balletto La Tour, in cui abbiamo temuto che lei avrebbe smesso. Quel titolo dedicato a Jung indicava la conquista, da parte sua, dell’io totalizzante?

Si, sono junghiano, non condivido la teoria della sessualità di Freud. Infatti in Tour le valige indicano il viaggio. Il cerchio attorno al simbolo fallico il mandala. Forse avevo trovato. Ma non ho mai pensato di fermarmi. La danza è il mio respiro, la mia preghiera. Non potrei farne a meno.”

  • L’abbiamo vista sgranare rosari di religioni lontane. Risulterebbe che ha abbracciato varie fedi…

(Tace e ci guarda.)

  • Non vuole rispondere?

Preferisco di no.

  • In lei si nota una sorta di sincretismo religioso…

Le religioni dicono tutte la stessa cosa. E’ il nostro modo di viverle che le rende diverse.

  • Pensa che oltre la vita ci sia qualcosa?

Non saprei. Ma credo che siamo troppo piccoli per la sopravvivenza. Dio non ha creato simile a sé l’uomo ma il mondo.

  • Perché ad un certo punto ha ritirato i diritti dei suoi lavori?

Non è vero. Li ha la Scala, Berlino, Tokyo.

  • Ma è scomparso ingoiato dell’Oriente. Poi è tornato all’improvviso con The Tokyo Ballet al traino. Perché al Giappone ha concesso tutto quello che ha tolto all’Europa?

L’Europa è diventata intollerabile. Pensa solo al denaro.

  • E l’America?

Mi piacerebbe essere tutto, afgano, nero…Mai americano. L’America è un continente senza radici, la colonizzazione ha ucciso ogni cosa.

  • La colonizzazione è un male?

Il peggiore dei traumi, ma forse è ancor peggio la decolonizzazione. Uno va, dissacra, torna indietro. I popoli senza memoria non hanno futuro.

  • Per lei è più importante la musica o la danza?

La musica è l’assoluto. Ma io sono solo un coreografo.

  • I musicisti più amati?

Boulez e Mozart. Wagner con quel suo cromatismo che pare il fluttuare della coscienza buddista.”

  • Cosa deve ancora dire?

Ascolto, osservo, sono pessimista ma credo nella gente. La sento, la vedo…

  • Si definisce di sinistra?

Di certo non amo e regimi e men che mano quello comunista. Ma se penso allo smarrimento di Berlino dopo la caduta del muro…

  • Cosa fa per la pace tra i popoli?

Agisco con l’unica arma che possiedo, le parole della danza. Amo il mio prossimo e i miei balletti hanno sempre una soluzione positiva. Il ricavato dei diritti d’autore va sempre ai ragazzi poveri che desiderano studiare. Anche la scuola di Losanna è gratuita è aperta a tutti. I giovani devono ritrovare la purezza d’anima della chiesa dei primi secoli. Quella di San Francesco.

  • In tempi non sospetti l’Islam era la sua ossessione. Lo è ancora? Crede che l’Islam sia destinato a conquistarci?

Non risponde, ma prima di andarsene ci mette in ma un libricino. Leggiamo:

“il problema attuale è quello dei paesi industrializzati, Stati Uniti in testa, che sfruttano il pianeta distruggendo la possibilità di futuro dell’altra metà del globo. Che invece di vivere sopravvive sotto la soglia di povertà e spesso trova nella disperazione la causa di una violenta sete di vendetta.”

Maurice Bèjart, maître á penser della coreografia, è un francese che non si riconosce. Che non crede più all’Europa e forse ha trovato quello che cercava in Giappone. Ma non si fermerà. Vagherà per sempre, inquieto Wanderer attratto dal bello. Ma soprattutto dalla purezza, dalla spiritualità, dalla fratellanza: unico vero cemento tra i popoli.

I tempi in cui la danza era il suo psicodramma personale sono lontani anni luce.

Elsa Airoldi
(18 agosto 2004 – Corriere del Ticino)

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