ItsArt, Netflix e i fichi secchi
È stata recentemente annunciata dalla stampa la nascita della nuova società “ItsArt”, ossia la famosa “Netflix della cultura” di cui il ministro Franceschini ha parlato ampiamente sin dai primi decreti della scorsa primavera.
Pochi giorni fa il sito Key4Biz ha pubblicato un’accurata analisi (https://www.key4biz.it/si-chiamera-itsart-svelato-il-nome-della-netflix-italiana-della-cultura/338417/) a cura di Angelo Zacconte Teodosi, Presidente di IsICult (Istituto italiano per l’Industria Culturale) che mostra la presenza di diverse ombre sulla vicenda e sull’intero progetto. Per riassumere: poco prima di Natale 2020, è stata costituita una società, denominata ItsArt, tra Cassa Depositi e Prestiti e la piattaforma di distribuzione Chili. Il primo dubbio è su che base si sia scelta questa società, visto che è stata designata dal ministero per assegnazione diretta e non tramite bando o gara d’appalto, come prassi vorrebbe in presenza di un committente pubblico. Ma andiamo con ordine, senza pregiudizi, e valutiamo la situazione.
Parlare di una “Netflix della cultura”, oasi redditizia di fruizione di contenuti artistici, è certamente bello, ma tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, specie in un ambito come questo. L’idea di poter replicare, con contenuti diversi, il successo di una struttura come Netflix (e i suoi milioni di clienti paganti) è sicuramente attraente; ma la storia è piena di idee geniali vincenti seguite da tentativi di imitazione completamente fallimentari. Perchè un progetto funzioni, infatti, non basta l’idea: serve conoscere il mercato, posizionarsi in modo univoco, stimare la risposta, pianificare e sperare che non intervengano fattori imprevisti, come un concorrente imprevisto o una variazione tecnologica.
Netflix, come la conosciamo noi, nasce proprio da questo approccio: costituita nel 1998 in USA come servizio di noleggio film per posta (per servire anche le località prive di un videonoleggio), esplode con il boom del DVD a inizio anni duemila venendo poi quotata in borsa nel 2002 e arrivando a un rispettabile utile di sei milioni di dollari nel 2004. Con il tramonto del DVD e l’alba delle connessioni veloci perde rapidamente clienti: ma, a differenza di Blockbuster (che fallirà durante la stessa crisi), riconverte la propria struttura verso lo streaming seguendo la diffusione delle connesioni veloci per riconquistare una fetta di mercato che conosceva molto bene: era infatti chiaro che l’utenza diminuiva non per disinteresse nei confronti dei film, ma semplicemente perchè il noleggio dei DVD era percepito come qualcosa di caro, vecchio e scomodo. La soluzione è stata fornire una piattaforma facile e completa, diretta a un mondo (ora non più limitato dal servizio postale) in cui la domanda era enorme e l’offerta scarsa. Certo, la pirateria era gratuita, ma Netflix offriva qualità video garantita, pronta disponibilità di un enorme catalogo (senza doversi saper barcamenare tra siti truffa e applicazioni di scambio file) e accesso da ovunque, prima tramite computer e poi tramite qualsiasi dispositivo: tre fattori, a cui si è poi aggiunta la disponibilità di materiali esclusivi, che giustificavano ampiamente il canone mensile, tanto da decretare un costante incremento della clientela che oggi si aggira sui 180 milioni di abbonati per un utile di quasi due miliardi di dollari
La situazione della cultura è diametralmente opposta, poichè il divario tra domanda e offerta è visibilmente meno pronunciato. L’obiettivo di ItsArt è dichiaramente la realizzazione di una piattaforma a pagamento, il che farebbe prevedere che il modello di business che si vuole adottare possa puntare al raggiungimento, nel breve o medio periodo, di un punto di break-even, ossia di un momento in cui i guadagni possano eguagliare (e successivamente superare) i costi, permettendo alla società di andare avanti con le proprie forze. Tuttavia, il fatto che il gettone di partenza inserito dal ministero sia di soli dieci milioni di euro circa fa pensare a due sole cose: o che si prevede di raggiungere la parità in un tempo molto rapido, oppure che c’è un errore nei calcoli.
Anche senza prendere in considerazione i costi di avviamento (Chili è già operativa dal 2012 come fornitore di contenuti in streaming), le cifre messe sul tavolo dal ministero sono bassine per poter pensare di creare un catalogo che possa attrarre un numero di utenti sufficiente per partire. Inoltre, manca la conoscenza del territorio dove si vuole sbarcare: ricordiamoci che Netflix partì con l’online per riconquistare clienti che conosceva bene, mentre ItsArt non ha esperienza del suo target (Chili vende altro genere di prodotti, il ministero non ha mostrato molta competenza in passato; servirebbe uno staff di gente espertissima, magari guidata da un Peter Gelb o da un Bruno Monsaingeon). A questo si aggiunge il fatto che, stando alle dichiarazioni, Chili conta su uno staff di circa 90 persone delle quali una trentina saranno spostate nella nuova struttura ItsArt (senza prevedere nuove assunzioni). Secondo i dati del 2019, a fronte di circa 9000 dipendenti e un fatturato di 20 miliardi di dollari, Netflix ha dichiarato un utile netto di circa 2 miliardi e, quindi, costi pari a circa 18 miliardi. Stando alle dichiarazioni, ItsArt partirà con 30 dipendenti forniti da Chili e dieci milioni di euro messi dal ministero. Facendo un po’ di matematica, dato che Netflix ha 300 volte i dipendenti di ItsArt, e considerando che Netflix fa oltre 180 milioni di abbonati, verrebbe da pensare che ItsArt vorrebbe puntare a un equivalente di 600.000 abbonati (usando il 300 come fattore di proporzione), il che sarebbe un obiettivo tutto sommato neanche folle. Tuttavia, sempre mantenendo lo stesso fattore di scala, dovremmo ragionare su un investimento circa 60 milioni di euro che, a regime, dovrebbero essere reperibili da un investimento individuale di circa cento euro all’anno. Però, finchè gli utenti non ci sono (ammesso di trovarli), i costi vanno in qualche modo sostenuti, anche perchè il catalogo è ovviamente un discriminante fondamentale perchè un potenziale utente possa essere mosso all’acquisto di un abbonamento, e un catalogo costa.
Su questo aspetto, la presenza di Chili riveste un ruolo tanto fondamentale quanto enigmatico. Fin dalla fondazione della presente forma societaria, nel 2012, questa piattaforma ha adottato un business model diverso rispetto a Netflix, poichè Chili ragiona a consumo, non ad abbonamento: la fidelizzazione del cliente dipende quindi esclusivamente dal catalogo disponibile e dal consumo individuale, a differenza di Netflix in cui la tariffa è mensile indipendentemente dalla quantità di materiale fruito (dopo aver inizialmente adottato il modello a consumo, abbandonato ormai da vent’anni). Nei suoi otto anni di vita, Chili ha conosciuto una crescita rilevante (per quanto, stando alle dichiarazioni della fine del 2019, a fronte di 55 milioni di fatturato, avesse ancora perdite per oltre dieci milioni di euro https://www.affaritaliani.it/mediatech/ascolti-tv–chili-raddoppia-il-fatturato-ricavi-2019-a-55-mln-ebitda-a–13-618510.html ) che l’ha portata a essere presente in diversi paesi europei: non è infatti accessibile da qualsiasi nazione, poichè questo ovviamente implica contratti con gli enti locali titolari del noleggio e della riscossione dei diritti, il che implica investimenti importanti. Questo potrebbe essere un problema, perchè nel momento in cui si vuole partire con un progetto per distribuire la cultura il target deve necessariamente essere mondiale; dal 2019 Chili vende anche tramite la rete Apple, ma bisognerà capire se anche ItsArt potrà farlo, dato che parliamo di un contenuto diverso rispetto a quello cinematografico.
Se poi consideriamo la cosa dal punto di vista di chi dovrebbe produrre contenuti, sovviene un’ulteriore osservazione: in tempi recenti, a fronte di un enorme incremento dell’offerta per ovvie cause contingenti, si è visto che solo alcuni eventi hanno avuto una risonanza mondiale, a volte per i contenuti (Bergamo), a volte per il brand (La Scala): ma quante produzioni possono effettivamente raccogliere una ampia platea, in termini di immagine, contenuto, marchio? Giusto per limitarsi alla lirica, mi verrebbe da citare il Marino Faliero a Bergamo, o il Barbiere di Siviglia a Roma: ma siamo sicuri che una Traviata o un Rigoletto di nuova produzione reggeranno il confronto (di pubblico) con una delle tante riprese presenti su DVD o, magari, gratis su YouTube? Non andiamo però a sminuire la fatica che fanno i teatri per rinnovarsi e passiamo oltre, supponendo che i materiali potenzialmente ci siano. Sulle produzioni del passato, un bell’accordo con le Teche Rai potrebbe già creare notevoli attese (salvo creare concorrenza con la stessa Rai), ma sulle produzioni presenti e future sorge un altro dubbio: visto che non si parte con in tasca il tesoro di Ali Babà (siamo sempre ai famosi dieci milioni, e a fondi futuri che saranno comunque presi dal bilancio del ministero, pertanto soggetti ai medesimi chiari di luna), che serve per acquisire tanto materiali vecchi quanto quelli nuovi, che tipo di condizioni sono previste per le nuove produzioni a catalogo? I normali costi di locazione video, poco compatibili con il budget attuale? Formule a ridistribuzione dei proventi, che difficilmente un produttore accetterà? Viste le esperienze passate, sorge il sospetto che – come già visto in più occasioni – si voglia per l’ennesima volta giocare al ribasso e permettere la pubblicazione sulla piattaforma di materiali di qualsiasi provenienza, pur di far numero, magari in cambio di “visibilità” (moneta difficilmente spendibile al supermercato), obbligando quindi a un livellamento qualitativo (artistico ma soprattutto tecnico) verso il basso; stesso discorso ovviamente per l’acquisizione di produzioni già effettuate (e chiunque abbia una vaga idea di quanto costi, per un network, gestire diritti, locazioni e canoni ha capito di che cifre parlo). Sicuramente varrà la pena di ricordare che tra gli azionisti di Chili ci sono 20th Century Fox, Warner Bros, Paramount, Viacom e Sony che magari potranno offrire contenuti a tariffe convenzionate ma di certo non gratuite (come non avviene per nessun film, nessuna serie, nessuno show, nessun evento): stiamo parlando di aziende che stanno in piedi con la compravendita di prodotti per i quali il pubblico sente un reale bisogno. Quel bisogno che le strutture pubbliche dovrebbero creare, invece di perdere tempo a giocare agli imprenditori naif.
Viene da porsi una domanda: che scopo ha tutto ciò? Ognuno può trarne le conclusioni che preferisce, di natura politica, imprenditoriale o culturale. Io mi limiterò ad alcune considerazioni generali: questo progetto è fatto a immagine e somiglianza di un ministero che ormai da anni sembra aver dimenticato il suo ruolo culturale e che, richiamato per l’emergenza dall’amato ruolo di mecenate di pochi a quello di regolamentatore di tutti, non è in grado di proporre alcun piano di sopravvivenza al panorama dell’industria culturale italiana. Un ministero, infatti, in tempi di crisi dovrebbe sostenere interamente i comparti che sono bloccati dalla contingenza (come già avvenne cent’anni fa, quando lo stato intervenne a favore dei teatri la cui sopravvivenza era minata dall’arrivo del cinema), mentre in tempi normali dovrebbe lavorare per trasmettere cultura facendo in modo che questa diventi un valore, in modo che il popolo ci investa e crei un indotto che permetta di lavorare a tutti. Senza andare a pensare a tante soluzioni oggi improponibili (come tassare i biglietti dei teatri grandi per finanziare i teatri piccoli: oggi farebbe urlare di sdegno, ma in passato si fece) ci sono tante soluzioni meno drastiche ma molto efficaci: dall’obbligare i soggetti FUS ed Extra-Fus a riservare una congrua percentuale dei loro biglietti da donare alle scuole, all’usare i fondi pubblici per produrre materiali divulgativi di qualità da trasmettere tramite i canali principali della TV di stato; altrettanto, servirebbero seri incubatori per startup culturali o azioni sanzionatorie nei confronti degli enti non virtuosi, oltre a un generale miglioramento dei criteri di selezione progettuale (ad esempio, qualcuno dovrebbe spiegare come mai nei “film di interesse culturale” compaiano regolarmente nomi come Vanzina, Salemme, Brizzi, Veronesi che, al di là di gusti e giudizi, sono spalleggiati da case di produzione di notevoli dimensioni). Oppure, in una logica squisitamente attuale, perchè non finanziare l’acquisizione di spettacoli a prezzo di mercato per poi riprenderli tramite regie RAI e farli acquisire dai canali nazionali. Ma se l’unico risultato è una ItsArt, ossia un enorme conglomerato di luoghi comuni (“la cultura italiana è famosa nel mondo”, “agli stranieri piace l’Italia”, “gli stranieri investono sull’Italia”) senza una strategia, direi che siamo messi ben peggio di quanto non possa apparire. Anche perchè, proprio perchè certi concetti sono ovvi, il fatto che nessun altro dei grandi network in questi mesi abbia pensato di rubare l’idea dovrebbe far capire che probabilmente c’è un motivo per cui sinora non è ancora stata fatta una “netflix della cultura”, ossia che non è un affare redditizio. E se quindi l’obiettivo è la creazione di una società privata in perenne passivo (che un ministero potrebbe voler sostenere per scopi culturali, a differenza di un imprenditore) questa dovrebbe almeno sfoggiare un piano d’azione degno di questo nome a fronte di un pubblico fidelizzato e possibilmente in costante crescita. Per carità, magari ItsArt proporrà intuizioni geniali che lasceranno a bocca aperta qualsiasi analista del mercato culturale, ma rimane il sospetto che si stiano organizzando, per l’ennesima volta, le nozze con i fichi secchi del discount.
Post Scriptum: Già in passato il ministro Franceschini aveva portato alla ribalta progetti rivoluzionari: vi ricorderete, immagino, del portale VeryBello (per Expo2015) o della biblioteca nazionale dell’inedito (https://www.fumettologica.it/2015/06/franceschini-la-biblioteca-nazionale-inedito/): entrambi sepolti nelle sabbie dell’oblio da quella generosa pietas che solo il tempo sa mostrare.
Carlo Centemeri
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