Turandot fu rappresentata per la prima volta il 25 aprile 1926 al Teatro alla Scala di Milano, sotto la direzione di Arturo Toscanini, il quale interruppe la rappresentazione a metà del terzo atto, due battute dopo il verso «Dormi, oblia, Liù, poesia!», ovvero dopo l’ultima pagina completata dall’autore, rivolgendosi al pubblico, secondo alcune testimonianze, con queste parole: “Qui termina la rappresentazione perché a questo punto il Maestro è morto”.
Proprio la Turandot nella versione incompiuta del 1926, è andata in scena ieri sera al Teatro Pergolesi di Jesi, un riadattamento della Rete Lirica in coproduzione con la Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi dello storico allestimento dell’Associazione Arena Sferisterio.
Ogni ripresa di Turandot impone sempre nuove riflessioni sulla natura difficilmente afferrabile di questo capolavoro, sospeso com’è fra innovazione musicale novecentesca (nello stesso periodo Alban Berg componeva l’atto secondo del Wozzeck, Schönberg era ancora in attesa della prima rappresentazione della Erwartung) e la tradizione del secolo precedente, che trova riscontro nell’introduzione nel corso dell’opera, di forme canoniche del melodramma ottocentesco. L’incompiutezza dell’opera genera ulteriori complicazioni, e basta scorrere la vasta letteratura critica per rendersene conto.
La morte colpì Puccini proprio nel momento in cui stava affrontando la scena finale, il duetto fra i due protagonisti e la conclusione del loro amore che forse secondo l’umile opinione di chi scrive, e di molti altri, sarebbe stata improntata diversamente forse più wagneriana e non una trionfalata d’amore a cui purtroppo siamo stati abituati nei decenni seguenti proponendo quasi sempre il finale scrito da Alfano.
Puccini pretendeva un salto di qualità rispetto alla sua produzione operistica precedente: l’amor avrebbe dovuto trionfare sicuramente ma ciò non sarebbe dovuto essere soluzione alternativa alle tragedie usuali dei finali melodrammatici ottocenteschi, piuttosto un superamento dei vincoli del linguaggio musicale del melodramma dell’800 giunto ormai nella sua fase crepuscolare. Non a caso, il problema della struttura di Turandot è particolarmente delicato, poiché accanto a un’articolazione tematica e sinfonica emerge con un rilievo del tutto peculiare un’ossatura costituita dal succedersi di alcuni numeri chiusi, peraltro famosissimi, che rappresenterebbe una sorta di epitaffio tombale volontariamente apposto dall’autore sulla tomba del melodramma italiano.
Quindi, è risultato apprezzabilissimo e molto moderno il tentativo vincente di voler rappresentare l’opera in un unico atto e interrompendo la musica laddove finisce l’originale partitura pucciniana.
La regia, le scene, i costumi e le luci sono firmate da un nome che non necessita alcuna presentazione, tanta la sua grandezza artistica ormai divenuta storica: Pier Luigi Pizzi, il quale afferma «Delle opere di Puccini, Turandot è quella con cui mi sono maggiormente confrontato e sempre con maggior convinzione ogni volta. Questa che sta nascendo non avrà pause fra un atto e l’altro e finirà con la morte di Liù come decise Toscanini alla prima esecuzione alla Scala di Milano. Massima concentrazione quindi sul potere trascinante della musica!».
Siamo di fronte a un ispiratissimo Pizzi che coglie alla perfezione il ‘profumo’ che Puccini conferisce a quest’opera: il risultato è stato un treno drammaturgico potentissimo, su cui gli spettatori sono saliti e poi rimasti immobili ed emozionati fino all’ultimo, mai un attimo di noia, mai un momento di calo di tensione, la musica amplificata dalla splendida acustica del teatro Jesino travolgeva senza lasciare spazio a distrazioni.
La specifica modernità dell’ultima opera di Puccini è ovviamente dovuta anche all’atmosfera esotica, che il regista realizza in maniera incantevole, ambientando la vicenda quasi al di fuori dai confini della Cina, in un oriente ipotetico e fiabesco con riferimenti alla religiosità indiana: la dea Kalì e Shiva, che comparivano sulla sommità dell’edificio imperiale, idoli dorati, di cui il più grande, con numerose braccia, è al centro della scena, troneggiando sul palcoscenico.
La scena si concretizza in una struttura fissa ed essenziale, quasi claustrofobica, ma elegantissima. L’ambientazione era asciutta ed elegante allo stesso tempo, realizzava perfettamente la coerenza interna del dramma così come voluto dall’autore, senza stravolgere niente. I giochi di colori dello spettacolo hanno trionfato su tutto: inizialmente un rosso violento, per poi sfumarsi in tine purpuree e rosee nei bellissimi costumi dei personaggi (sempre di Pizzi), che senza essere mai eccentrici rendevano sublimamente il loro carattere, solo Turandot rimane sempre pura nella sua veste bianca. Due scale portano a un piano rialzato con una porta da cui entrano ed escono esclusivamente i personaggi della corte imperiale, Turandot e Altoum. La “tinta” notturna fortemente voluta dal compositore si ricrea nei momenti blu e nel gioco di lampade di carta (l’azione si svolge nell’arco di una notte).
Magnifiche le scene di massa. Molto convincente il primo ingresso di Turandot nel corso dell’atto primo, circondata da un velo rosso teso dalle ancelle, a sottolinearne la sua inaccessibilità. La scena di Ping, Pong e Pang nei loro costumi color oro che si muovevano sulle scalinate rosso fuoco del palazzo è stato uno dei momenti più divertenti e riusciti dello spettacolo, propio dove invece nelle “normali” messe in scena di Turandot questo quadro risulta essere uno dei momenti più noiosi.
Turandot è stata interpretata dal soprano Tiziana Caruso, già esperta principessa “di gelo”, avendola interpretata su altri palcoscenici tra cui alla Shanghai Opera House e all’Ópera de Tenerife. L’attrice si muove poco, è sinuosa e seducente ma allo stesso tempo energica e disinvolta, crea sul palco un personaggio dal fascino tutto suo; l’alternarsi dei sentimenti della Principessa è venuto fuori molto bene sia dalla recitazione che dal canto. La Caruso ha voce ampia e tuonante, wagneriana, robusta ma anche dolce e ricca di pianissimi laddove il ruolo lo esige, certo è una voce che non passa in secondo piano di fronte alla tumultuosa orchestra pucciniana. Vedo poche cantanti italiane, forse nessuna, che possano interpretare Turandot oggigiorno come lei.
Il principe Calaf, era il tenore Francesco Pio Galasso, generosissimo con il pubblico jesino tanto da meritarsi un bell’applauso a scena aperta dopo la celeberrima aria e ha anche optato per la variante acuta di «Ti voglio tutta ardente d’amore» riuscendo bene nell’impresa, cosa che non è non è da tutti. Il tenore non si è trattenuto mai durante tutta la serata, la lunghezza e solidità dei suoi fiati è impressionante. Scenicamente ha risolto il suo ruolo con notevole destrezza. Il controllo accorto del fraseggio e la suddetta generosità ha fatto sì che quel trionfalismo “da Arena” del personaggio di Calaf venisse fuori alla perfezione. Forse era l’unico elemento che per le ragioni suddette non si inseriva bene nell’elegante minimalismo purpureo dello spettacolo Pizziano.
Liù era Maria Laura Iacobellis, che come succede spesso in tante Turandot si è portata via lo spettacolo, pur in un ruolo che io non definirei secondario, meritando grandi applausi a scena aperta e incantando tutto nel finale che in questa versione diventa il “suo” finale. La voce, che invadeva il teatro, è dolcissima e di bella qualità, ricca di armonici e dai pianissimi incantevoli, una Liù degna di essere paragonata alle grandi dei decenni passati.
Gli altri cantanti funzionavano tutti alla perfezione: bravissimi Paolo Ingrasciotta che, con Ugo Tarquini e Vassily Solodky, formava il trio dei ministri imperiali Ping, Pang e Pong; Cesare Catani, anche lui bravissimo, era l’imperatore Altoum. Infine, nel cast ha brillato il nome di Andrea Concetti, stupefacente e irraggiungibile Timur.
Il giovanissimo direttore Pietro Rizzo ha diretto complessivamente bene, una direzione pratica e funzionale. Naturalmente la sua concertazione non è stata tanto a soffermarsi sui dettagli cromatici e armonici novecenteschi di questa meravigliosa partitura, che sono stati comunque cercati, e senza proporsi chissà quali traguardi, la direzione ha mostrato comunque calore e impetuosità laddove richiesto; non da ultimo ha accompagnato in maniera perfetta i cantanti tenendo conto delle loro qualità canore quindi proponendoli al pubblico nelle migliori condizioni possibili.
Successo e applausi per un grandissimo Puccini di “provincia”.
Renato Olivelli
(29 novembre 2019)
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