Jessica Pratt, un concentrato di tecnica e simpatia
A 10 anni dal debutto in Italia: rientro a Sidney con furore. Nel 2018 in programma il debutto di Jessica Pratt all’Opera di Sidney con Lucia di Lammermoor
Possiamo riassumere questi 10 anni di vita artistica con questo Sidney – Cremona / Como / Pavia / Brescia – Sidney. Nel 2003: la partenza dall’Australia. Vinci un concorso lirico in Australia e fai la scelta di completare gli studi di canto in Europa e in Italia. Debutti nel 2007 nella provincia italiana da protagonista Lucia di Lammermoor del circuito As.Li.Co, E’ annunciato quest’anno 2018 il rientro a Sidney con Lucia di Lammermoor alla Opera House della tua città nello spazio teatrale principale dedicata Joan Sutherland.
- Come giudichi questa avventura se avventura si può chiamare. È stato un percorso di vita scelto e portato avanti con determinazione e forza di volontà? Con quali aspettative eri partita, si può dire, con la valigia in mano? Cosa ti ha dato l’Europa e la formazione in Italia?
L’Italia mi ha dato tutto. In Australia non avevo tante possibilità di intraprendere la carriera da belcantista. Quando sei giovane non sai ancora come evolverà la voce. La formazione era incentrata su un repertorio che comprendeva essenzialmente Puccini, Strauss e Wagner. Del resto ho vinto l’Australian Singing Competition con la Boheme di Puccini. Si cantava di tutto dalla Mathilde di Shabran di Rossini alla Louise di Charpantier. Con la vincita del concorso del 2003 sono riuscita dapprima a frequentare un corso di un mese a Tel Aviv e poi, partecipando a concorsi come Operalia, sono riuscita con i viaggi pagati dalle organizzazioni, a frequentare l’Europa.
La svolta è arrivata quando NON ho vinto un concorso in Australia nel 2006: In giuria c’era il Gianluigi Gelmetti, allora direttore della Symphony Orchestra di Sidney, che aveva apprezzato la mia voce, e mi ha proposto di continuare la formazione in Italia all’Opera di Roma.
Qui ho conosciuto le vocalità di Mariella Devia e Daniela Barcellona e mi sono innamorata del belcanto e dell’Italia. Così sono riuscita a studiare e ad essere ammessa all’Accademia di Santa Cecilia nelle classi di Renata Scotto, Anna Vandi e Cesare Scarton. Sono stati loro a darmi l’opportunità di debuttare sul palcoscenico. A 28 anni non vi avevo ancora messo piede e avevo difficoltà a trovare lavoro per guadagnare.
Come docente di Arte Scenica all’Accademia, Scarton è riuscito a farmi partecipare alla produzione del Re Pastore di Mozart come Aminta e poi come Sofia nel Signor Bruschino di Rossini.
Poi c’è stato un piccolo colpo di fortuna: nel 2007 l’As.Li.co aveva bandito un concorso per il ruolo di Lucia di Lammermoor da allestire nella stagione del circuito dei teatri lombardi, ma dal quale non era uscito nessun idoneo. Caso volle che Renata Scotto avesse invitato ad un mio concerto in Accademia Giovanna Lomazzi, del Concorso As.Li.Co. È così che si sono ricordati di me e sono stata chiamata per le audizioni e poi presa per il ruolo di Lucia. Sarò sempre grata al pubblico della provincia italiana attento e appassionato anche più di quello delle grandi città.
- Voce dal nuovo mondo. Un mio amico critico musicale nei tuoi confronti si è espresso con questo giudizio: “ogni volta di secolo l’Australia ha la capacità di inviarci dei tesori vocali“. Faceva riferimento ad altre due voci provenienti dalla tua terra Nelie Melba (tra ‘800 e ‘900), Joan Sutherland (anni ’60). Come ti rapporti con queste maestre del canto? Soggezione o ammirazione o distacco per modalità di stile e periodi storici distanti e diversi da oggi?
È come dire che un cantante che viene dall’Australia si deve confrontare solo con una Sutherland o una Melba, o una dalla Grecia con la Callas. Chi fa questo mestiere si porta dietro tutta la tradizione e le responsabilità di tutti i soprani che l’hanno preceduta indipendentemente dalla nazionalità. Tra Sutherland e Melba? Sono Jessica Pratt con la mia personalità e la mia voce. Essere imprigionati in un paragone perenne con i simboli del passato non aiuta mai. La loro eredità non è nel confronto ma nel materiale musicale e letterario che ci hanno lasciato. Consultando il trattato di canto della Melba che ho ritrovato a Melbourne fra i documenti custoditi nel Museo a lei dedicato, ho trovato una bella citazione da lei indirizzata ai giovani; “È molto difficile cantar male e molto facile cantar bene. Però ci vogliono anni di pratica ed esercizio per imparare a cantare in modo più semplice”.
- Il riferimento alla Melba e all’arte del canto di inizio ‘900 permette di fare una riflessione sul tuo stile di canto che si può definire “floreale” inserendo abbellimenti personali nella linea di canto che riportano in auge le acrobazie vocali dei soprani di agilità di quel tempo, Luisa Tetrazzini, Maria Galvany, Annelita Galli Curci, per arrivare a Toti dal Monte. Sembra una contrapposizione a tutto il lavoro di filologia e di ripristino delle fonti musicali proprio del periodo del “belcanto” attorno alle ricerche sugli originali condotti dalla Fondazione Rossini e dalle edizioni critiche delle opere di Verdi e di Donizetti.
Non è assolutamente vero! Ma davvero pensate che un genio come Donizetti scrivesse le cabalette ripetute due volte perché non gli veniva in mente nulla per renderle più varie? Prima dell’avvento di Verdi, fino a metà ‘800, erano gli stessi compositori che adattavano le parti vocali in base al tipo di voce che avevano a disposizione, riproponendo altre arie e altre cabalette. La cantante arrivava in palcoscenico con le sue capacità vocali che metteva a disposizione di un pubblico che aspettava proprio quei momenti in cui gli artisti sfoderavano tutti il loro strumenti interpretativi. Senza l’interpretazione del cantante vedremmo opere sempre uguali ed eseguite in modo scolastico senza colori o, anche peggio, con i colori dettati dalla moda del momento e non dall’espressione artistica dell’esecutore. Io cerco di abituare il pubblico ad un altro tipo di ascolto. Tutti si aspettano nella Lucia la cadenza della Tetrazzini, e non si riesce a proporre altro. La colpa è un pò delle registrazioni che hanno creato modelli di interpretazione dogmatici. Oggi è a volte molto difficile liberarsi da alcuni vincoli di tradizione per proporre qualcosa di nuovo negli spazzi che i compositori hanno lasciato alla libera intuizione dell’artista. Quando preparo un ruolo, non ascolto troppo e invece mi concentro sulla mia personale interpretazione.
- In Italia le programmazioni teatrali anche degli enti lirici maggiori vivono alla giornata. Alla fine i Teatri e le scuole d’opera offrono formazione di qualità ma si lasciano scappare gli artisti per mancanza di opportunità lavorative. Tra l’altro assistiamo che la tua carriera si sta sempre più indirizzando verso la Spagna. Che riflessi hanno avuto sulle tue scelte artistiche?
Il problema dell’incapacità dei teatri italiani di programmare a lunga scadenza credo nasca dalla loro forte dipendenza dai finanziamenti pubblici in questo momento di difficoltà del paese. I teatri esteri lavorano con larghissimo anticipo e il mio calendario si riempie inevitabilmente. D’altro canto sono molto legata all’Italia e, se da una parte il mio agente lavora ai contratti del 2022, io dall’altra cerco di mantenere aperto qualche spazio nel mio calendario nella speranza di riempirlo con qualche data Italiana. Qualche volta sono solo accordi sulla parola e altre volte finiscono in un nulla di fatto. Pazienza… è il mio piccolo trucco per ritagliarmi qualche giorno di ferie se le cose vanno male.
- Alla ricerca del repertorio perfetto del Belcanto. Hai un repertorio ad ampio spettro da Haendel (Giulio Cesare) a Mozart per passare al Rossini serio e ai protoromantici (la Sposa di Messina di Vaccai) imponendoti all’attenzione internazionale per la capacità di risolvere una scrittura musicale ardua e impervia come la Zenobia dell’Aureliano in Palmira o la Rosmonda d’Inghilterra di Donizetti (Bergamo 2016), protagoniste di opere rare e dimenticate proprio per la difficoltà dei ruoli.
Ai giovani nelle scuole di canto australiane si consiglia spesso di iniziare con Mozart. Io invece penso che ci siano compositori incredibili come Rossini e Vaccai che erano anche insegnanti di canto. Loro sapevano come funziona la voce. Studiano quel repertorio si impara subito a non forzare. In Vaccai, prendiamo ad esempio La Sposa di Messina, c’è un bellissimo passaggio con scale ripetute fino ad arrivare al Do, nel contesto di un momento scenico molto drammatico, che incoraggerebbe naturalmente il soprano a spingere forzando su quella nota. Invece il compositore aggiunge una sequenza di trilli su ogni nota conducendo la voce fino al Do, senza alcuno sforzo.
Mi entusiasmo quando mi avvicino ad un’opera che non conosco, come mi entusiasmo a cantare per la prima volta opere famose. In ultima analisi forse preferisco i ruoli dimenticati perché riscoprirli e riportarli alla luce è estremamente gratificante. In quei casi sono libera da un eccessivo vincolo della tradizione e li sento più miei. È stato così per molti anni al ROF di Pesaro ed è il lavoro che si sta impostando con il Festival Donizetti a Bergamo. C’è un mare di materiale inedito di Donizetti che verrà riproposto e registrato. Uno dei grandi meriti del Rossini Opera Festival è stato quello di riscoprire un certo Rossini, quello serio. Oggi anche noi cantanti lo proponiamo spesso nelle rappresentazioni di questo repertorio. Esempio ne è stato il Tancredi, che da Losanna è stato portato a Valencia e lì considerato fra le migliori produzioni della passata stagione. La riscoperta del materiale dimenticato è un gran bene. Con il lavoro di queste associazioni si crea un accesso altrimenti difficile se non impossibile a partiture che sono un gran tesoro dell’umanità. In questo contesto Internet può essere un grande strumento di diffusione di un sapere che altrimenti è destinato all’oblio di un archivio polveroso. Del resto anche l’onnipresente Youtube ha il merito di proporre ormai quotidiano accesso a materiale musicale poco noto e poco conosciuto al grande pubblico.
- Preferisci confrontarti con questi personaggi dimenticati o con quei personaggi che la tradizione teatrale richiede, Lucia, Elvira, Amina, Gilda, Marie e tra poco Norina del Don Pasquale e Adina dell’Elisir d’amore?Ma con chi ti immedesimi maggiormente? E come ti rapporti con i ruoli comici?
Non faccio distinzione fra i ruoli più noti e quelli meno comuni. Le emozioni che portano in scena sono sempre le stesse. Felicità, tristezza, gelosia, amore… le normali espressioni dell’umana natura. In questo senso Gilda non è diversa da Rosmonda e a me piace interpretare ambedue.
Con i ruoli comici mi diverto molto. Sono una boccata di aria fresca nel mio repertorio spesso drammatico. Non per questo sono però più facili da interpretare. Far ridere può essere più difficile che far piangere. Secondo me il trucco è affiancare il serio al faceto per creare un contrasto. Il comico è sempre più comico se preceduto dal tragico.
Il fine ultimo è di sbloccare le emozioni, siano esse tragiche o felici. Noi cantanti dobbiamo creare empatia con il pubblico in modo da accendere quel fuoco che è l’esperienza collettiva del teatro.
- Memorabile è stata la tua Cunegonde nel Candide di Bernstein (Roma, gennaio 2012) a detta di tanti forse una delle tue interpretazioni più riuscite forse perché inaspettata incastrata come era tra Adelaide di Borgogna (al ROF), Puritani (As.Li.Co )e la successiva Lucia di Lammermoor al San Carlo di Napoli.
Si, in quel caso mi sono veramente divertita. La riprenderò presto in Italia. Mi piace che il mio repertorio abbia un respiro ampio. Candide ne è un esempio. Del resto gli artisti devono essere vari altrimenti rischiano di diventare routinari, perdere interesse e annoiare il pubblico. Un mondo o una sfida diversa ci aiuta a ripulire e rinfrescare la mente così da intraprendere sempre nuovi percorsi.
- Oltre il bel canto. Qual è il tuo rapporto con la musica da camera e con il repertorio di musica sacra o l’oratorio? Rimangono episodi isolati il Davide penitente di Mozart e la Didone abbandonata di Rossini come presenze in questa tipologia di musica?
L’oratorio è un repertorio che ho eseguito molto come studente in Australia e fa parte integrante della nostra formazione. Qui in Europa non ho avuto molte occasioni di affrontarlo e spesso viene sempre più eseguito da cantanti specializzati. È difficile anche solo proporre un concerto di arie da camera o lieder. Il pubblico richiede arie d’opera e quindi spesso si cerca di creare un programma misto per compiacere i molteplici desideri.
- In questi ultimi mesi sei alle prese con la Regina della notte del Flauto Magico di Mozart. C’è una registrazione nel 2006. Nel 2011 a Londra al Covent Grade con una bellissima produzione di McVicar diretta da Colin Davis, poi, nel 2016 la ripresa a New York al Metropolitan in forma scenica ridotta; nel 2017 sotto la direzione di Dudamel a Los Angeles in forma di concerto e in primavera prossima ad Amburgo. Che problemi comporta questo ruolo? È così difficile per te immedesimarsi nella Regina della notte mozartiana?
La Regina della Notte è una mia sfida personale, una scommessa da vincere: devo arrivare ad affrontarla senza l’ansia che il ruolo incute. È una sfida tecnica che richiede anche buona forma fisica e uno stato impeccabile di salute. Ci vuole allenamento, voce pulita e concentrazione. Non ci si può lasciare andare perché non ci sono opportunità di recupero. Solo due arie conosciutissime con le note più estreme e agilità da capogiro. Tutti le conoscono e tutti si accorgerebbero subito del più piccolo errore. La Regina non perdona! Per me non più di una volta l’anno!
- Si annunciano nuovo ruoli, con quali prospettive per il futuro?
Come detto, sto consolidando i rapporti con il festival Donizetti con cui ho in programma vari impegni. Nell’ambito della sperimentazione c’è sicuramente una interessante Ariadne auf Naxos di Richard Strauss nel 2019 in Francia. Con il progredire della carriera in ambito più internazionale, arrivano sempre più spesso richieste di questo genere. Certo rifarò anche una Traviata in Spagna nel 2019/20, anche se non è esattamente il mio repertorio comune. La Traviata e il Flauto Magico sono i due estremi per la mia vocalità. Con La Traviata ho bisogno di tempo per “metterla in voce” e tempo per rientrare nelle mie caratteristiche belcantiste. Cantarla comporta un notevole esercizio di fiato e di stile. Io personalmente, pur come belcantista, ne preferisco un’interpretazione canonica più verista. Per questo sono costretta a modificare la mia tecnica con un certo sforzo didattico ogni volta.
- Il tuo pubblico: come lo vedi?
Più che “il mio” pubblico, farei riferimento al pubblico per il mio genere. Ci sono appassionati di belcanto, come di Wagner. Ho notato che questi amanti del genere mostrano grande apprezzamento per le rarità. C’è un gran desiderio di riscoperta, che condivido e faccio mio.
- E dove batte il cuore? Cosa ti fa paura?
Il cuore batte sul palco. Amo il mio lavoro. Quando ero piccola, con mio padre tenore, vivevo sempre a contatto con la “musica” e la “rappresentazione”, ovvero il Teatro. Deve essermi rimasto dentro.
Quanto alle paure, forse, solo quella di perdermi qualcosa della vita, mentre viaggio senza sosta per il mondo. Ho fatto questa scelta molto tempo fa. Mio padre mi ha sempre detto di non preparare un piano B. Il piano B è solo una via di fuga. Un modo per rinunciare al piano A. Non so se questo sia vero e quanto mi possa aver aiutato, ma di fatto, da quando ho iniziato a cantare, ho sempre e solo pensato che avrei fatto quello. Un po’ come dire che bisogna banalmente credere in sé stessi.
Federica Fanizza
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