LA BOÎTE À JOUJOUX #5: La Wunderkammer di… Regia – parte uno
Molto spesso, quando si va a teatro, che sia l’occasione di un testo di prosa o uno spettacolo musicale, ci si imbatte in considerazioni inerenti un ambito, oramai consolidato nella nostra attualità, ma che ha una sua personale vita relativamente breve: stiamo parlando della regia. Scrive Mirella Schino: “La regia nacque come un rinnovamento estetico del teatro. Per gli artisti di teatro, fu anche lo strumento per un riscatto sociale e culturale, più tardi persino etico e spirituale”; questo ci mostra come nel tempo si sia trovata una possibile nuova alternativa a qualcosa di “creato”, ma soprattutto si sia determinata l’“invenzione di una nuova materia organica”, sempre usando le parole della Schino. Dovendo fare una breve cronologia storica (che, personalmente, mi trovo spesso a fare durante le mie personali lezioni di Regia all’Accademia di Belle Arti a Perugia), non possiamo non considerare quei livrets de scène ad uso della provincia realizzati a Parigi a partire dal 1830 circa, una sorta di libretti di istruzioni per far sì che uno spettacolo venisse riproposto fuori dalla Ville Lumière; questo ci mette davanti il cosiddetto lato economico, una sorta di mercificazione dell’arte che toglie allo spettacolo quel velo di creatività e di gusto artistico che uno spettacolo deve avere e soprattutto una sorta di riproduzione seriale di un allestimento. Segue poi la ricerca di definire una figura che possa coniugare quello che è scritto con quello che viene proposto scenicamente; si comincia con l’autore, segue poi la definizione della figura del régisseur (antenato dell’odierno regista, con annessi anche i vari ambiti amministrativi della compagnia), che poi sarà sostituito dal capocomico (per capirne alcuni tratti, ci aiuta Pirandello con i suoi Sei personaggi in cerca d’autore) e poi finalmente una figura, che assume il nome di regista, costellazione di vari nomi di largo spessore, tra i quali possiamo citare Konstantin Stanislavskji, Bertolt Brecht, Giorgio Strehler, Luca Ronconi, Ariane Mnouckine e tanti altri. Ora, non è intenzione del sottoscritto fare una lezione e tantomeno soffermarmi sugli sviluppi storici della regia (ci sarà occasione di riprendere il discorso man mano che affronteremo l’argomento), bensì dare una visione della regia come qualcosa che fa parte di noi e del nostro tempo, che può piacere o non piacere, ma per questo non è da condannare o da puntarle il dito contro. Oggi mi vorrei soffermare sulla recente Wally, vista lo scorso 21 marzo al Teatro Comunale di Bolzano nella stagione Opera 20.21 della Fondazione Haydn di Bolzano e Trento; in questo allestimento Nicola Raab lavora a stretto contatto con la scenografa Mirella Weingarten, cercando non tanto di raffigurare in maniera precisa quello che viene scritto nell’opera, bensì puntando a rappresentare in un allestimento essenziale, ridotto a un continuo contrasto tra bianco e nero, le emozioni dei personaggi e il menefreghismo della società. Può far storcere il naso ai più, agli affezionati melomani che cercano il confronto con qualcosa del passato, ma questo lavoro ci mostra, encore une fois, come oggi la regia si evolve, ricerca di definire nuove possibilità e soprattutto ritrova nuovi possibili strumenti nell’attualità; non si sta certo dicendo che la tradizione sia una banalità, e tantomeno si sta denigrandola, ma solo si sta osservando che oggi i tempi sono cambiati, che la nostra società è diversa da quella che aveva di fronte un Catalani, un Verdi o chi per loro. Teniamo a mente i livrets de scène, certamente, o le Disposizioni sceniche del Cigno di Busseto, ma non fossilizziamoci su qualcosa che è stato, facciamo in modo che nascano nuove visioni, come proprio in questa Wally dove la protagonista è una donna con “una sua forza interiore” (Mirella Weingarten cit.), lontana da quell’ “ambito artistico [dove] era lo sguardo dell’uomo sulla donna a dettare legge” (Nicola Raab cit.). Niente montagne o valli o precipizi o sentieri in scena, solo suggestioni, che stanno a noi e alla nostra visione della natura delle cose; e questo, personale opinione di chi scrive, è un bene, perché ci permette di dare all’opera stessa nuove possibilità, nuova vita oseremo dire. Oggi più che mai serve dare al teatro di regia la possibilità di aprirsi a qualcosa di nuovo, a qualcosa che viva appunto, e non è certo trovando questi nuovi perché che si distrugge quanto un testo o un’opera ci raccontano, ci svelano, ci mostrano. Il teatro e l’opera non sono una mera galleria di mummie, un luogo congelato; tantomeno la regia è un lavoro di ricostruzione, ma di azione e di creazione che si mette al servizio di quel qualcosa che è scritto o di quel qualcosa che ha come elemento forte la musica. Chi scrive ha negli occhi, per esempio, l’allestimento di Don Giovanni di Graham Vick, o La Bohème dello stesso regista inglese, o ancora taluni allestimenti di Damiano Michieletto, o l’Aida di Alfonso Antoniozzi con le sue videoscenografie di gusto cinematografico, l’Attila scaligero di Davide Livermore e tanti altri spettacoli; regie a forti tinte contrastanti per i più, ma rilevanti e necessarie nella nostra attualità, dove esistono nuovi codici di comunicazione, nuovi strumenti che permettano di dare forza e vigore al tutto. Non dobbiamo fare della nostra cultura teatrale e operistica una museificazione, anzi, è il momento di guardare avanti, senza distogliere lo sguardo dal passato certamente, e di dare forza al fatto che essa, la nostra cultura, fa parte di noi e realizza quello che siamo noi… solo così, possiamo dire, la regia e il regista (realtà che avranno sempre un certo fascino) troveranno nuovi modi di essere e soprattutto di esistere.
To be continued…
Mirco Michelon
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