Le vite parallele nella musica di Mario Messinis

Quando lo incontravi, a Venezia o altrove, sul lavoro o semplicemente per caso, potevi stare certo che dopo i convenevoli Mario Messinis ti avrebbe guardato di sottecchi, con quel suo sguardo allo stesso tempo penetrante e sornione, e poi avrebbe dato il segnale dell’inizio dei discorsi seri, sempre allo stesso modo: «Allora…».

Poteva essere l’analisi su quello che si era appena finito di ascoltare o di vedere – in questo caso immancabilmente con il beneficio del dubbio – oppure sui temi culturali del momento, va da sé specialmente musicali, ma non soltanto. Diceva «Allora…», Mario, e sembrava che si accingesse a interrogarti, memore di una vita passata anche a fare il docente di Storia della Musica al conservatorio Benedetto Marcello, mentre in realtà era il suo modo colloquiale, di squisita nonchalance, per avviare il dialogo sui temi che gli interessavano. Tranquillamente incurante della differenza generazionale, mai professorale, sempre pronto a cogliere l’aggancio giusto, la prospettiva diversa ma intrigante.

Aveva compiuto 88 anni nello scorso mese di marzo, da qualche tempo costretto a non condurre la vita di sempre per qualche problema di salute, e se n’è andato in queste ore, quando mancano poco più di due settimane al Festival Internazionale di Musica Contemporanea della Biennale, la manifestazione veneziana alla quale ha indissolubilmente e per più lungo tempo legato il suo nome. Eppure, sarebbe semplicistico “ridurre” Mario Messinis all’esperienza, pur centrale e di enorme importanza, della direzione della Biennale Musica. Perché la sua vicenda culturale, professionale e umana testimonia il fatto che egli è stato protagonista di molte “vite parallele”: quella dell’intellettuale multiforme e curioso di ogni sapere, quella dell’uomo di musica dagli interessi molteplici, quella dell’organizzatore colto e di successo, quella del docente e del conservatore di una delle biblioteche musicali più importanti d’Europa (al Conservatorio veneziano) quella del critico scrupoloso e minuzioso, che ha coltivato puntigliosamente la fatica artigianale del giornalismo chiaro e pregnante.

Vite parallele in mondi diversi per quanto affini, che oggi troppo spesso vengono confusi e pasticciati. Messinis ha interpretato tutti i ruoli delle sue multiformi attività con la stessa esemplare profondità e senza mai abbandonare la rigorosa separatezza che sola li può rendere compatibili, sempre inflessibile nell’evitare ogni sovrapposizione. E li ha interpretati con tale efficacia da rendere davvero difficile, al di là della visibilità maggiore o minore assicurata dal suo impegno, indicare quale sia stata la sua attività “d’elezione”.

La vita di studioso e di docente è quella iniziata per prima, nel 1958, quando aveva 26 anni. Vinto un concorso nazionale, si era insediato sulla cattedra di Storia della Musica al conservatorio Benedetto Marcello, assumendo in pari tempo anche il ruolo di bibliotecario. Grazie a lui, fra molte altre iniziative, era approdato a palazzo Pisani il vasto Fondo archivistico e librario di Fausto Torrefranca, uno dei più importanti musicologi europei del primo Novecento. Avrebbe lasciato il conservatorio, per raggiunti limiti di età, solo 38 anni più tardi, nel 1996. Dopo aver visto passare almeno due generazioni di musicisti, docenti e studiosi di primo piano.

Pochi anni dopo l’inizio dell’insegnamento, nel 1962, Messinis diventava il critico musicale del Gazzettino. Quest’altra vita, in un settore allora ancora fondamentale nella stampa quotidiana, lo avrebbe portato a fare il “reporter musicale” dai maggiori teatri italiani ed europei oltre che dai grandi festival internazionali. Un impegno assolto con dedizione e professionalità, sospeso solo quando i suoi compiti di organizzatore lo imponevano. La scrittura era per lui una sfida complessa, con la quale aveva un rapporto complicato. La sua misura non è stata quasi mai quella del libro e raramente quella dell’intervento nei “programmi di sala”, ma proprio quella della recensione, che si capiva sempre lungamente meditata ed elaborata. Frutto di un’acuminata capacità analitica, combinata con la profonda conoscenza storica e sempre corroborata dalla vasta esperienza d’ascolto. E da una sensibilità straordinaria – parlando dell’opera – per le ragioni della regia e delle sue innovazioni.

A proposito della scrittura, un piccolo interessante libro a cura di Massimo Contiero, Messinis ricorda (Amici del Conservatorio, 2015: il testo riporta una conversazione pubblica avvenuta a palazzo Pisani l’anno precedente) contiene una “confessione” illuminante: «Fare un libro comporta una certa responsabilità. È più facile parlare e più difficile scrivere. C’è una mia pigrizia fondamentale. D’altro canto, un grande come Bobi Bazlen è stato fra gli animatori della casa editrice Adelphi senza mai scrivere. Sono in buona compagnia!». Oltre il paradosso (Bazlen non è stato autore prolifico ma lo è stato, oltre che attivissimo traduttore), il senso è chiaro. E la assai smilza bibliografia di Messinis ne è la controprova. Ma vale la pena di segnalare che proprio la sua lunga e multiforme attività di critico “militante”, come si diceva una volta, è stata comunque consegnata alle pagine di un libro. S’intitola Ah les beaux jours! Cronache musicali 1965 -2002, a cura di Paolo Pinamonti, ed è stato pubblicato da Olschki nel 2002, per i settant’anni dell’autore. Non ci saranno, però, salvo sorprese, le sue memorie: Contiero (già direttore del conservatorio veneziano) ricorda di avere cercato più volte e in modi diversi di indurlo a fissare l’esperienza di una vita dentro la musica, sempre ricevendone con sovrano understatement un sostanziale disinteresse.

Come organizzatore musicale Mario Messinis è stato attivo in quasi tutti gli ambiti della produzione musicale italiana, stabile o festivaliera. I suoi quasi 15 anni alla guida della Biennale Musica (1979-1989 e poi 1992-1996) non sono solo la conseguenza di competenze ed esperienze nel settore probabilmente con pochi eguali in Europa, ma testimoniano la vastità e la profondità dei suoi collegamenti con gli autori. Dai rigori dell’avanguardia più radicale alle nuove tendenze di fine Novecento e inizio XXI secolo, aveva percorso un itinerario organizzativo sempre sorvegliato e motivato, ma anche sempre in grado di fare capire “lo stato dell’arte”. Conosceva tutti quelli che vale la pena di conoscere, si potrebbe dire: con molti i rapporti non erano stati facili (Stockhausen, ad esempio), con tutti sempre fervidi di risultati e di idee consegnate al pubblico. Ma aveva guidato anche la programmazione delle orchestre Sinfoniche Rai (Torino dal 1986 al 1989, Milano dal 1989 al 1994), conducendole non solo ad approfondire il repertorio sotto prospettive rinnovate, ma ad accostare la contemporaneità (a Milano ideò il ciclo “Dialoghi con Maderna”).  Ed era stato per 27 anni, a partire dal 1992 e fino all’anno scorso, il direttore artistico del Bologna Festival, portato a grande crescita di attenzione e di interesse con una programmazione che sapeva unire i poli della musica antica, rinascimentale e barocca, con quella del Novecento e dei nostri tempi: una sintesi delle sue prospettive storico-culturali oltre che musicali, coltivate all’insegna del rigore ma anche della fantasia, dell’innovazione nelle proposte concertistiche.

Nella sua Venezia, era stato sovrintendente della Fenice nel periodo più difficile, quello seguito al rogo del 1996, con le attività spostate sotto il tendone del Palafenice al Tronchetto. Non si era fatto intimorire dalle difficoltà logistiche, proponendo locandine operistiche multiformi e di grande interesse per lo spazio dedicato anche ad autori non centrali nel repertorio, come Janacek, Rimskij-Korsakov o Rachmaninov, e sinfoniche votate sia al Novecento storico che alla valorizzazione del repertorio veneziano. Fitto l’elenco dei grandi interpreti, specialmente del podio.

Dopo il rogo della Fenice, non era stato fra quelli che la volevano (come poi è stato) “com’era e dov’era”. In nome della necessità di un teatro adeguato ai tempi. Forse non per caso, quindi, la rinascita non l’aveva visto sul ponte di comando. Se non aveva apprezzato l’uscita dopo appena tre anni (1997-2000), non lo lasciava intendere. E non cessava di sottolineare il miracolo dell’acustica nel teatro ricostruito. In platea, sempre insieme all’inseparabile e amatissima moglie Paola, occupava invariabilmente la poltroncina quasi isolata in ultimissima fila. È stata il suo “ufficio” fino a quando proprio non ce l’ha più fatta ad andare, la sera, in Campo San Fantin.

Cesare Galla

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