Lione: Ariane et Barbe-Bleue, viaggio nell’inconscio femminile
Con il titolo “Femmes libres?”, l’Opera di Lione propone in quest’ultimo scorcio di marzo, esclusivamente in streaming e con la collaborazione di Medici.tv (sul cui sito si possono vedere gli spettacoli in replay), un concentrato festival dedicato a due lavori capitali nel teatro musicale di inizio Novecento. I titoli sono entrambi collegati alla inquietante mitologia favolistica di Barbablù, e quindi a una visione della figura e del ruolo della donna che non è esente dall’ambiguità e dall’incertezza che ben giustificano il dubbio rappresentato dal punto di domanda nel titolo della rassegna.
Il principale elemento in comune fra Ariane et Barbe-Bleue di Paul Dukas (1907) e Il castello di Barbablù di Bela Bartók (1918) è la sostanziale indifferenza al plot di tradizione come delineato da Charles Perrault nella sua celebre fiaba. Successivo di qualche anno al lavoro del francese, quello del compositore ungherese (che lo cominciò ancora nel 1911) ne sussume solo in parte l’impostazione simbolistica, ma poi sceglie una strada che indica semmai la via del nascente Espressionismo, non fosse che per la crudezza violenta del finale a sorpresa. E la regia di Andriy Zholdak promette di non fare sconti, dato che lo spettacolo – peraltro costruito in modo da offrire due versioni diverse a cui si assiste in successione – come in una sorta di Rashomon melodrammatico – viene “sconsigliato” ai minori di 16 anni sul sito Internet dell’Opera lionese .
Se l’unica opera di Bartók ha un ruolo importante nel teatro musicale del Novecento e non è del tutto ignorata nelle programmazioni (ricordiamo la bella edizione alla Fenice all’inizio dell’anno scorso, ultimo spettacolo “regolare” prima della pandemia (qui la recensione), l’unica opera di Dukas è una vera e propria rarità. Del resto, si parla di un musicista che non solo ha avuto il destino di essere conosciuto per una sola composizione (la Scherzo sinfonico L’apprendista stregone, va da sé, con i determinanti buoni uffici del film Fantasia) ma ha lasciato un catalogo che definire ridotto è perfino esagerato: l’elenco pubblicato dal Grove si esaurisce in quindici composizioni in tutto, più una manciata di progetti rimasti allo stato embrionale o altre partiture che lo stesso autore destinò al macero.
Su Ariane et Barbe-Bleue, Dukas lavorò per quasi otto anni, dal 1899 al 1907: periodo cruciale per le sorti della musica nel Novecento, in particolare a Parigi. Periodo durante il quale, fra l’altro, vide la luce il Pélleas debussiano, che rappresenta un evidente punto di riferimento per Dukas (perfino a livello di citazione tematica). Del resto, l’autore del libretto è lo stesso che diede a Debussy il testo della sua opera, Maurice Maeterlinck, una figura centrale nel Simbolismo in chiave drammaturgica.
La particolarità della narrazione costruita dallo scrittore belga (che fu Nobel per la letteratura nel 1911) consiste nel fatto che al “mostro” e alle sue malefatte non viene riservato niente più che un ruolo di cornice, per quanto sia il riferimento psicologico della schiera di donne che animano la drammaturgia: egli compare solo all’inizio (le nuove nozze del cupo e feroce personaggio) e alla fine (la sua cattura da parte degli abitanti del villaggio, esasperati dalle storie sulle sue efferate violenze). Di fatto, in quest’opera Barbablù è una sorta di non-personaggio, che anche musicalmente ha una parte ridotta, insignificante. Fondamentale invece l’esplorazione dell’universo femminile nelle polarità dell’eroina eponima e del gruppo delle cinque precedenti mogli, tenute in cattività ma non uccise. Ariane (e il riferimento alla mitologia greca non è casuale, così come il suo rovesciamento: lei non sarà abbandonata ma abbandonerà il suo uomo) è una persona per la quale “Tutto quello che è permesso con ci insegnerà nulla”. Per lei, contraddire quello che appare un ordine fatalmente costituito è dunque un elemento di crescita personale, di auto-affermazione. La sua avventura nei sotterranei nel castello, grazie alla quale riporterà alla luce, letteralmente, le cinque precedenti mogli di Barbablù, è una sorta di percorso iniziatico e insieme liberatorio. Ma la liberazione sarà solo sua: con tocco ambiguo non meno che inquietante, alla fine le cinque mogli segregate rifiuteranno di andarsene dal castello.
Trasformata in favola sospesa e indeterminata, la vicenda offre a Dukas l’occasione di mettere a punto quello che forse un po’ riduttivamente è stato definito “quasi un poema sinfonico con voci”. Certo, la raffinatezza dell’orchestrazione e la ricchezza (e la qualità) degli inserti solo strumentali è determinante nel delineare il clima dell’opera, ma è anche vero che il canto costruito da Dukas è un’originale punto d’incontro fra il declamato e l’arioso, che non concede nulla all’attrattiva della melodia fine a se stessa ma raggiunge una grande efficacia espressiva e drammatica. E il wagnerismo è contenuto, mai soverchiante. Non a caso, fra i musicisti contemporanei che più furono interessati all’Ariane ci sono Schoenberg e Berg.
Lo spettacolo di Lione era affidato alla Fura dels Baus. Àlex Ollé ha realizzato una regia raffinata, che lavora sugli elementi di simbolismo attraverso un immaginario elegante, da un lato quasi razionalistico negli arredi, dall’altro indefinito e senza tempo: un quadro insieme sfuggente e denso di particolari rivelatori, che continuamente alterna la dimensione del (presunto) reale con quella dell’onirico. Decisive, da questo punto di vista, le scene di Alfons Flores, che realizzano una sorta di continua “sovrapposizione” e alternanza dei due elementi molto intrigante anche alla visione in streaming, e le luci di Urs Schönebaum, fondamentali per la sottolineatura dell’indeterminatezza psicologica in cui si dipana la vicenda. Moderni senza dettagli di stile, in linea con lo spettacolo, i costumi di Josep Abril Janer.
La parte di Ariane ha pochi eguali, non fosse che per l’impegno richiesto al mezzosoprano che deve darle voce – canta praticamente sempre, dall’inizio alla fine – e per la necessità di dominare un’estensione che spesso si configura come quella di un soprano drammatico. Katarina Karnéus l’ha realizzata con encomiabile generosità e con una tenuta che solo alla fine è parsa concedere qualcosa per quanto riguarda la nitidezza. Denso e approfondito il fraseggio, appropriato per dare il senso della vocalità creata da Dukas, fascinoso il colore, intrigante l’espressività anche sul piano scenico. Intorno a lei, la compagnia al femminile ha visto in primo piano la Nutrice di Anaïk Morel, dalla linea di canto controllata e duttile, e le varie Hélène Carpentier, Adèle Charvet, Margot Genet, Amandine Ammirati e Caroline Michel, tremebonde e tormentate ex mogli di Barbablù. Quest’ultimo ha avuto la voce interessante e ben timbrata del baritono Tomislav Lavoie.
Dal podio, Lothar Koenigs ha dato con conto della ricchezza e raffinatezza della scrittura strumentale di Dukas con plastica evidenza, ottenendo dall’orchestra dell’Opera di Lione duttilità, efficace gamma dinamica e precisione. Interpretazione introspettiva, la sua, sempre in grado di illuminare la densità e la profondità della concezione musicale alla base di questo capolavoro misconosciuto del primo Novecento, non solo francese.
Cesare Galla
(24 marzo 2021)
La locandina
Direttore | Lothar Koenigs |
Regia | Àlex Ollé/ La Fura dels Baus |
Scene | Alfons Flores |
Costumi | Josep Abril Janer |
Luci | Urs Schönebaum |
Personaggi e interpreti: | |
Barbe-Bleue | Tomislav Lavoie |
Ariane | Katarina Karnéus |
Mélisande | Hélène Carpentier |
La Nourrice | Anaïk Morel |
Selysette | Adèle Charvet |
Ygraine | Margot Genet |
Bellangère | Amandine Ammirati |
Comédienne | Caroline Michel |
Orchestre, Chœurs et Studio de l’Opéra de Lyon |
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