Milano: Beatrice Rana e il senso del sacro
Mercoledì 14 dicembre, Beatrice Rana ha calcato il palco della Sala Verdi per la Società dei Concerti di Milano con un programma temibile: una breve suite di brani di Skrjabin (Preludi op. 11 n. 16, op. 16 n. 4, op. 11 n. 11, op. 16 n. 2, Studi op. 42 n. 5 e op. 2 n. 1), la Seconda Sonata di Chopin e la Sonata op. 106 “Hammerklavier” di Beethoven.
L’impaginato del programma potrebbe trarre in inganno. I brani di Skrjabin sembrano scelti casualmente e accostati alla Sonata di Chopin per la trita analogia tra i due compositori, che al contrario parrebbero sideralmente distanti da Beethoven, in particolar modo da quella maestosa sinfonia pianistica che è la Hammerklavier. Mai fidarsi delle prime impressioni. Non solo la costruzione della suite skrjabiniana tradiva l’intelligenza di Beatrice Rana (i brani si innestavano fluidamente l’uno dentro l’altro, senza soluzione di continuità e con perfetta drammaturgia), ma la scelta di cominciare dal Preludio op. 11 n. 16 era una dichiarazione di intenti. Il Preludio, caratterizzato da distinti echi della Marcia funebre chopiniana, era ben distante dall’essere un inizio d’effetto, ma introduceva le atmosfere funeree e sacrali che la pianista avrebbe evocato nel resto del programma. La morte sembrerebbe essere lo sfondo di tutto il concerto, una morte contemplata nel nervoso decadentismo del primo Skrjabin, nei demoniaci timori della Seconda Sonata di Chopin o nelle ampie architetture della Hammerklavier e del suo lunghissimo Adagio sostenuto.
Come osserva Luca Chierici nella sua puntuale analisi del concerto, questo è per Beatrice Rana un punto di svolta. Alle soglie dei 30 anni, la celebre pianista si trova nel 2023 anche a celebrare i 10 anni dalla vittoria dell’argento al Concorso Van Cliburn, il momento di definitiva affermazione sul panorama concertistico internazionale. Centinaia di concerti (e una pandemia) dopo, quale strada ha intrapreso Beatrice Rana? Se questo concerto è indicativo, ad attenderci è un approccio più libero e spontaneo, vitale, persino rischioso. In genere più cauta, nel corso del concerto Rana ha assunto dei rischi spericolati che andavano dalle scelte dei tempi alla tenuta della frase, senza frenare sui molti e poderosi salti, abbandonando spesso ogni prudenza, anche espressiva. Il suono, certo, è ancora quello che abbiamo imparato a conoscere: massiccio, persino roccioso, a tratti un po’ schiacciato, ma proiettato con perentoria determinazione e modulato con tocco al limite del prodigioso. Diverso il discorso per il fraseggio, invece. Le frasi, condotte plasticamente e ben sostenute nel canto, non si sono mai irrigidite in un fraseggio prestabilito o calato sulla materia musicale, ma sembravano invece sgorgare naturalmente, assecondare l’umore del momento, contrarsi e distendersi con una spontaneità nuova, che non contraddiceva la visione essenzialmente architettonica che Rana ha della musica.
Il flusso musicale ha trovato in realtà ancora qualche ostruzione in Skrjabin e Chopin. Lo Skrjabin di Beatrice Rana è caratterizzato da una certa compostezza che ben si addiceva a quella sacralità quasi da lamento funebre che la pianista ha evocato nei sei brevi brani, strutturati quasi come un piccolo requiem pianistico. Quando il discorso si faceva più tormentato, penso soprattutto allo Studio op. 42 n. 5, sarebbe però servita una maggiore definizione e uno slancio più marcato, mentre il pedale generoso a tratti tendeva a sfumare eccessivamente i contrasti della tipica scrittura su tre piani di Skrjabin. Chopin ha trovato un’altra forza espressiva, con brillanti intuizioni e qualche calo di concentrazione. L’ottima costruzione drammatica ha sostenuto tutto il primo movimento Grave. Doppio movimento, riuscendo a rendere credibile il tanto discusso ritornello dal Grave, con slanci di grande calore espressivo e una varietà di tocco a tratti illuminante. Per rendere ancora più convincente la lettura di Rana, avrebbe aiutato una tensione espressiva più vivace e una maggiore immersione nel flow musicale, da cui la pianista sembrava a tratti distaccarsi per tornare ad un controllo forzoso, distante dalla libertà espressiva conquistata. Splendide le intuizioni dello Scherzo (una fra tutte la trasformazione grottesca in valzer), sorrette da un cambio di tocco sempre adatto, mentre più distratta è stata la Marcia funebre, di cui bisogna però segnalare la sublime parentesi estatica del Trio centrale. Vertice di tutta la Sonata è stato il Presto conclusivo, dalla pianista fraseggiato in ogni dettaglio e con un controllo dinamico impressionante, manifestato nelle frequenti e zampillanti increspature della superficie sonora. L’effetto era sì misterioso, ma anche spettralmente drammatico. Se il senso del sacro ha percorso questa prima parte, è un sacro vissuto, tormentato, negato eppure cercato, lontano da ogni ieraticità monacale.
L’unione di struttura e libertà ha trovato la migliore realizzazione nella Sonata op. 106. Oltre 40 minuti di sonata beethoveniana, metronomi originali al limite dell’eseguibile (almeno sullo strumento odierno), e una profondità di espressione tale da intimorire i pianisti di ogni generazione, la Hammerklavier è stata per Beatrice Rana l’opportunità di mostrare una lettura equilibrata eppure senza compromessi. L’articolazione del materiale nitida e definita non si è spinta fino ad un approccio analitico-timbrico che rievocasse timbri e colori orchestrali. Al contrario, una certa indeterminatezza e la pedalizzazione generosa immergevano i momenti più sospesi nelle magiche atmosfere pianistiche, mentre l’omogeneità timbrica si scontrava con la chiarezza polifonica in un braccio di ferro reso più arduo dal tentativo della pianista di sostenere i tempi beethoveniani. Il risultato è stato una Sonata op. 106 maestosa ma non magniloquente, più agile che imponente, senza sacrificare quella spiritualità laica che avvicina questa Sonata alle subito successive Missa solemnis e Nona Sinfonia. Cuore espressivo del brano è il terzo movimento, il menzionato Adagio sostenuto. Rana lo ha affrontato nel segno dell’intimità cantabile, marcando quell’“Appassionato e con molto sentimento” senza cadere in sentimentalismi posticci, ma anche senza dilatare i tempi o indugiare in esplorazioni estemporanee. Di nuovo, il pianismo di Beatrice Rana è votato ad una visione strutturale molto definita e ogni elemento trova sempre una sua funzione nell’architettura generale, con un ordine che non si è mai fatto inventariale. Ne è un esempio lo Scherzo, piccola parentesi schiacciata tra il primo e il terzo movimento che raramente riceve la dovuta attenzione. Eppure, in un paio di minuti Beethoven compie un piccolo prodigio. Rana ben lo comprende e lo mette in rilievo, isolando ed evidenziando le varie caratteristiche strutturali (note ripetute, figurazioni interne, elementi ritmici) che sospingono la macchina-scherzo con un senso di energica inevitabilità. Della Fuga conclusiva non c’è molto da scrivere: se un ulteriore lavoro di diversificazione timbrica e dinamica aiuterebbe ad evitare il rischio di schiacciare i volumi (rischio dietro l’angolo, in quest’ultimo tempo Beethoven non risparmia il forte e i fortissimo), il magistero pianistico di Rana è semplicemente innegabile. Gli applausi fragorosi (cui sono seguiti due bis, il Cigno di Saint-Saëns nella trascrizione pianistica di Godowsky e lo Studio per le otto dita di Debussy, non esente da richiami al Presto della Seconda Sonata di Chopin) hanno accompagnato le numerose entrate e uscite della pianista, visibilmente più rilassata dopo la Hammerklavier. Decisamente comprensibile.
Alessandro Tommasi
(14 dicembre 2022)
La locandina
Pianoforte | Beatrice Rana |
Programma: | |
Aleksandr Skrjabin | |
Preludio Op. 11 n. 16 | |
Preludio Op. 16 n. 4 | |
Preludio Op. 11 n. 11 | |
Preludio Op. 16 n. 2 | |
Studio Op. 42 n. 5 | |
Studio Op. 2 n. 1 | |
Fryderyk Chopin | |
Sonata n.2 in si bem. min. op. 35 “Marche Funèbre” | |
Ludwig van Beethoven | |
Sonata in si bem magg. op. 106 “Hammerklavier” |
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