Milano: le affabulazioni della Ägyptische Helena

Andata in scena a Dresda nel giugno del 1928, Die Ägyptische Helena, opera in due atti di Richard Strauss su libretto di Hugo von Hofmannsthal, esordisce per la prima volta (!) alla Scala al termine della lunga e rigogliosa stagione 2018-2019.

Inspiegabile, si potrebbe esclamare con incredulo stupore, ma i novantun anni di assenza di questo importante titolo ci permettono di (ri)vivere in un certo senso l’autentica bellezza di un ascolto incorrotto dagli stereotipi di una tradizionale routine, suscitando nello spettatore l’incantevole rivelazione di un capolavoro.

Il mito ellenico euripideo parafrasato da Hofmannsthal con poetica e ridondante complessità, nonostante gli intenti originali mirassero a far riecheggiare le leggiadre atmosfere della Belle Hélène di Offenbach, viene completamente travolto dall’impetuosa vena creativa di Strauss che confeziona una delle partiture più inebrianti (e a tratti euforiche) della storia del melodramma.

Tragedia, commedia, mito e storia si fondono in una vicenda i cui protagonisti sono veri e propri stati mentali che si manifestano in atti estremi. Tradimento e assassinio muovono l’azione manipolata dagli interventi soprannaturali di Aithra, principessa e maga egiziana, che pare divertirsi come una pazza a preparare magiche bevande per reprimere nell’oblio i più truci istinti di Menelas nei confronti della bellissima Helena.

L’incessante ebbrezza che pervade ciascun personaggio e la tensione verso una risoluzione che possa ristabilire un equilibrio emotivo all’interno di questo claustrofobico intreccio psicologico sono espresse efficacemente nella scrittura straussiana in cui infinite modulazioni si avvicendano creando un tessuto sonoro di potente pathos teatrale.

La maestria di Strauss, sapientemente gestita nell’orchestrazione, è altrettanto ravvisabile nell’uso e riciclo di temi già impiegati in opere precedenti che qui assumono nuove e totalizzanti fisionomie.

Se l’impianto orchestrale può essere elevato a esempio di sinfonismo iper-decadente portato all’esasperazione da un uso sfrenato degli ottoni -sebbene non manchino parentesi squisitamente cameristiche e abbandoni estatici degli archi- sul versante vocale non solo sono necessari volumi considerevoli per superare il golfo mistico, ma è quanto mai imprescindibile una tenuta ragguardevole per sostenere un canto di conversazione che insiste attorno alla zona medio-acuta.

La prima scaligera di Die Ägyptische Helena, nonostante qualche reticenza da parte del pubblico verso un titolo ignoto, ha avuto il suo meritato successo grazie a un cast di altissimo livello.

La regia, affidata al tedesco Sven-Eric Bechtolf  -nonostante il raffinato apparato scenico ad opera di Julian Crouch, i mai invasivi inserti video di Josh Higgason e i sontuosi costumi di Mark Bouman– si muove attraverso movimenti stilizzati senza un’apparente volontà di intervenire sull’azione.

C’è ben altro, però, al di là dell’imponente radio che incombe sulla scena e che ad apertura di sipario provoca subito nello spettatore un senso di nostalgia degli anni in cui l’Art Nouveau dominava l’estetica europea.

Bechtolf, cosciente della mancanza di un divenire reale, lascia spazio alla musica e al testo evidenziando come i personaggi siano cristallizzati all’interno di un proprio stato dell’essere, privi di una ragionevole volontà.

All’interno di questo disegno registico, in cui riecheggiano atmosfere alla Klimt e alla Mucha, si è mossa una compagnia di canto congeniale agli intenti straussiani.

A indossare i panni della bella Helena il soprano tedesco Ricarda Merbeth.  Voce poderosa, di stampo wagneriano ante litteram, la Merbeth ha convinto per bellezza scenica, straordinariamente all’altezza del ruolo per volume, è risultata meno seducente nelle parti in cui è richiesto maggior fascino.

Andreas Schager, dotato di vocalità squillante grazie a una sapiente proiezione mai spinta ma ricca di armonici, ha saputo dominare l’impervia parte di Menelas riscuotendo il meritato successo.

Dinamica scenicamente e intelligente vocalmente Eva Mei ha dato vita a un’Aithra volubile in tutta la sua smagliante follia.

Più in difficoltà per ragioni di scrittura e volume il baritono Thomas Hampson, bene il tenore Attilio Glaser nella breve parte di Da-Ud.

A completare il cast il soprano Tadja Jovanovic nel ruolo di prima ancella e alcune soliste dell’Accademia del Teatro alla Scala.

Infine Franz Welser-Möst, autentico motore di questa importante produzione, ha rivelato tutto il suo credo straussiano per una partitura densissima e non di facile gestazione. L’orchestra della Scala, sotto la sua bacchetta, ha saputo evocare con tinte livide l’inquieto malessere esistenziale della vicenda, mettendo in risalto in modo intelligibile gli arditi intrecci strumentali.

Bene come sempre la compagine corale istruita dal maestro Bruno Casoni.

Applausi e unanimi consensi per un’opera che, nonostante i suoi novantun anni di vita, ha debuttato per la prima volta alla Scala con l’irruenza di un’adolescente.

Gian Francesco Amoroso
(6 novembre 2019)

La locandina

Direttore  Franz Welser-Möst
Regia  Sven-Eric Bechtolf
Scene  Julian Crouch
Costumi Mark Bouman
Luci Fabrice Kebour
Video – designer Josh Higgason
Personaggi e interpreti:
Helena Ricarda Merbeth
Menelao Andreas Schager
Hermione Caterina Maria Sala*
Aithra Eva Mei
Altair Thomas Hampson
Orchestra e coro del Teatro alla Scala
Maestro del coro Bruno Casoni

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