Milano: nelle steppe del Principe Noseda
Con mia somma gioia, il Teatro alla Scala – e con esso anche la Filarmonica – sembra aver intrapreso una massiccia esplorazione del repertorio russo. Non che siano mancati negli anni i grandi titoli, ma la concentrazione di opere e concerti che recentemente hanno portato la compagine e il pubblico milanese a confrontarsi con i grandi capolavori musicali dell’est è degna di nota. Mi limito qui a segnalare la mia speranza che questa felice tendenza prosegua, al netto degli orrori che stanno accadendo nel mondo.
Non è questo il luogo per addentrarci in (necessarie) polemiche, quanto quello di addentrarci nello splendido programma della stagione filarmonica di lunedì 14 marzo, diretto da Gianandrea Noseda. Per i 40 anni dell’orchestra, la Filarmonica ha commissionato a quattro compositori altrettanti brani da eseguire in prima assoluta. Questa sera era il turno di Carlo Boccadoro, celebre compositore e direttore di Sentieri selvaggi, che ha presentato Tre Danze: un brano quanto mai adatto al programma. Si tratta di una piccola suite composta, per l’appunto, da tre brani, piuttosto diversi tra di loro, ma fortemente coesi. In particolare si apprezza l’attenzione che il compositore maceratese concentra sulla pulsione ritmica, che in prima e terza danza domina la scena, mentre la seconda è più statica. L’elemento prettamente danzante non mi è risultato molto chiaro e i brani potevano essere di fatto quasi tre schizzi sinfonici, ma questo non ha diminuito la concisa efficacia della suite, che termina con un gesto ironico, per non dire proprio sarcastico.
Il protagonista di questa serata, e non nascondo la mia gioia, è stato Skrjabin. Del visionario compositore sono stati eseguiti il Concerto per pianoforte e orchestra op. 20 e, dopo l’intervallo, il Poema dell’Estasi. Sul Concerto per un istante ho temuto: non è facile trovare un sostituto per Demidenko e soprattutto non è facile trovare un sostituto per il Concerto di Skrjabin. Il brano è noto, ma non celebre, negli ultimi anni ha visto crescente attenzione da parte degli interpreti, ma fuori dalla Russia è ancora raro trovare un musicista che ce l’abbia in repertorio. Temevo un cambio programma, magari per un più convenzionale Čajkovskij, ma la Filarmonica della Scala è cascata in piedi: Bertrand Chamayou, che a questo concerto ha dedicato non poca attenzione recentemente.
Di questo concerto si sottolinea spesso la vicinanza con quelli di Chopin e di Grieg, ma l’interpretazione di Chamayou e Noseda lascerebbe non pochi sorpresi. I tempi compressi, ma soprattutto lo scatto nervoso e l’attenzione al suono scuro e persino percussivo di orchestra e pianoforte, hanno mostrato la stretta parentela che lega questo concerto con quelli coevi del compagno di studi Sergej Rachmaninov (il Concerto di Skrjabin è del 1897, il Secondo di Rachmaninov del 1901). Non è mancata l’attenzione di Chamayou al tocco sgranato, al fraseggio elegante, ma ciò che più mi ha catturato è stata la capacità del pianista francese di rendere magnificamente la tensione nervosa che è così tipica del giovane Skrjabin. Per chi è pratico dell’opera pianistica del Nostro, Chamayou ha interpretato il concerto come parente affine più della turbolenta ed esaltata Prima Sonata, che della lunare e sfumata Seconda. In questo ha trovato ottimi partner in Gianandrea Noseda e nella Filarmonica della Scala, che ha retto bene il non semplicissimo concerto, salvo qualche piccola sbavatura.
Meno riuscito il finale, che è un po’ punto debole del giovanile lavoro di Skrjabin: il lungo Allegro moderato è appesantito dalle numerose ripetizioni (ma redento da uno dei temi più belli usciti dalla penna del suo autore) ed è tanto scomodo, quanto ingrato. Chamayou e Noseda hanno tirato una barra sopra al “moderato” e hanno staccato un tempo che, nelle vertiginose volate del pianoforte non avrei creduto sostenibile. Questa spinta in avanti ha permesso al movimento di non sedersi, ma a tratti si è trasformata in una fretta che non ha lasciato spazio alla preziosità degli impasti evocati da Skrjabin. Questa fretta si è trasformata in frenesia, una volta giunti al finale perdifiato, che poteva attendere proprio le ultime battute prima di correre verso la maestosa chiusa. Al solista grandi applausi, che ha ricambiato con due bis di Ravel: la Pavane pour une infante défunte e À la maniere de Borodin, brano perfetto per preparare la seconda parte del concerto.
Boccata d’aria e di nuovo in sala per uno dei capolavori del primo Novecento: il Poema dell’Estasi. La densità della scrittura del Poema è celeberrima e uno dei principali rischi è di perdersi nei meandri della polifonia o abbandonarsi ad una lettura decorativa, indugiando nelle morbide parentesi sognanti e perdendo così la solidità di una forma sonata che Skrjabin, da bravo allievo di Taneev, porta fino agli estremi (e il Poema è davvero un equivalente orchestrale delle sonate pianistiche della maturità). Noseda sembra avere tutto questo ben chiaro, mentre lotta con il magma sonoro skrjabiniano nel tentativo di unire rigore e libertà. Ci riesce nel modo a lui più consono: con l’alternanza di scatto e riposo, concertando magnificamente gli impasti orchestrali. Quello che Noseda sacrifica in trasparenza verticale lo riacquista in chiarezza orizzontale. Ogni sezione conduce magnificamente all’altra, l’arco della frase non si incrina mai e la travolgente energia del direttore ha permesso a lui e alla Filarmonica di condurre lo slancio verso i due grandiosi climax, raggiungendo il finale con senso di vertigine. Mi fermo un istante per segnalare la splendida prova data dalla Filarmonica su questo brano, con particolare attenzione a tromba, flauto, primo violino, corni e l sezione dei violoncelli intera.
Guardando l’impaginato del programma, sono rimasto sorpreso dal vedere le Danze polovesiane, tratte dal Principe Igor di Borodin, collocate dopo il Poema dell’Estasi. Certo, il ritorno alle danze chiude quanto aperto da Boccadoro, ma il Poema è un brano che assorbe così tanto dell’energia sia fisica che emotiva dei suoi interpreti che lanciarsi sulle Danze polovesiane era una sfida ardua. Filarmonica e direttore non hanno però esitato e fin dalle prime note si è colto il perché Noseda sia il più russo di tutti i grandi direttori italiani di oggi. Seppure un po’ di quella stanchezza si sia sentita in un appiattimento delle sfumature e in una ruvidezza a tratti eccessiva, non per questo le Danze polovesiane hanno mancato di splendide parentesi liriche, alternate ad un’incontenibile energia. Forse sarebbe bastato invertirle con il Poema di Skrjabin per equilibrare meglio il tutto. Pubblico entusiasta e una caratteristica scenetta scaligera: una grandiosa battaglia tra un buatore solitario in loggione e l’intero teatro, orchestra inclusa, che sosteneva invece il direttore a cori di “Bravo” e con accenni di standing ovation (e ad un certo punto è partito pure il rullante sul palco). Decisamente un buon risultato.
Alessandro Tommasi
(14 marzo2022)
La locandina
Direttore | Gianandrea Noseda |
Pianoforte | Bertrand Chamayou |
Filarmonica della Scala | |
Programma: | |
Carlo Boccadoro | |
Tre Danze | |
Aleksandr Skrjabin | |
Concerto in fa diesis min. op.20 per pianoforte e orchestra | |
Poema dell’estasi op. 54 per grande orchestra | |
Aleksandr Borodin | |
Principe Igor – Danze Polovesiane |
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