Milano: Quanta poesia nell’Orphée et Euridice
“Sono stata inebriata“, scriveva la Dauphine de France Marie Antoinette a sua sorella, la principessa Cristina di Saxe-Teschen, alludendo al grande trionfo delle opere di Gluck alla Corte di Francia. “Questo avvenimento ha suscitato il più incredibile fermento che si possa immaginare: ci si divide, ci si affronta come se si trattasse di una questione religiosa. A Corte, benché io mi sia pronunciata pubblicamente in favore di quest’opera di un genio, nascono dei partiti e delle discussioni di una vivacità singolare” (cfr. “Quando papà Gluck inebriava Maria Antonietta”, a cura di Antonio Calabrò e Elena Guicciardi).
Il legame tra Gluck e la Regina Maria Antonietta affonda le sue radici nella corte viennese quando Gluck impartiva lezioni di canto a una giovanissima Arciduchessa d’Austria. Divenuta Dauphine, Maria Antonietta ammise ufficialmente alla sua toilette il proprio ex insegante, assicurandogli una cospicua pensione annua e divenendone mecenate, favorendo la creazione di capolavori come l’Orphée et Euridice.
Opera cardine nell’evoluzione della querelle tra gluckisti (sostenuti da Maria Antonietta) e piccinisti (protetti dalla Du Barry), e nel passaggio tra la tragedie lyrique lullysta e il nuovo genere drammatico-musicale dell’action théatrale, l’Orphée registra svariate riprese scaligere in alcune delle numerose versioni affermatesi nei secoli. Mai, però, era stata ripresa a Milano quella proposta il 2 agosto 1774 al Palais Royale, che è in scena al Piermarini sino al 17 marzo.
La direzione di Michele Mariotti estrae dalla compagine scaligera un colore “sospeso”, come sospesa è la stessa orchestra che si sposta fisicamente su più piani a seconda di dove il libretto colloca la scena fra Boschi, Inferi e Campi Elisi. Un suono raffinato nei volumi e nel fraseggio, a tratti etereo, a tratti più reale e umano, ma mai intensamente drammatico. Non credo sia un caso, o una svista, quanto piuttosto una lettura coerente con l’essenza di quest’opera e con il significato del mito di Orfeo.
Perché Orfeo compie questo viaggio? Perché si volta a guardare Euridice? Tra le possibili risposte, una delle più affascinanti è quella che vede nel viaggio di Orfeo non tanto un tentativo di salvare l’amata Euridice, quanto una sfida per mettere alla prova sé stesso. Orfeo è il simbolo della poesia e sa che il suo canto può ogni cosa, anche resuscitare i morti, e non ha più bisogno di amare una donna viva, perché la sua affermazione di poeta passa proprio attraverso il dolore, e quindi attraverso la mancanza di Euridice. Se come dice Gesualdo Bufalino in Calende greche, Orfeo si è “voltato apposta”, allora si può ipotizzare che il dolore di Orfeo sia solo un espediente per la celebrazione della poesia e non l’elemento distintivo di una storia umana tragica. Senza contare che la poesia (intesa come versi, libretto) qui impone alla musica il rispetto del dato drammatico razionalista e che i personaggi appartengono al mito e non alla storia, e devono avere – così come la musica che li rappresenta – il fascino dell’ineffabile.
In questo senso, l’evanescente drammaturgia di Orphée, che non affida ai personaggi un materico spessore psicologico, e anzi gioca su riflessi e trasparenze, trova nella bacchetta di Mariotti un’adeguata rappresentazione. Un’arpa in scena evoca le lezioni che Gluck impartiva a Maria Antonietta, e un flauto (aggiunto nella versione francese) si alza in piedi per esporre il proprio tema, probabilmente come lo stesso Gluck accompagnava la sua reale allieva nel teatro del Petit Trianon. Tutto, in questa produzione, sembra funzionale alla resa contemporanea di quel marveilleux che è elemento essenziale della scena francese settecentesca. E l’impatto emozionale è garantito perché fondato su una semplicità contratta e gravida di contenuti.
Analogamente coerenti all’idea dello spettacolo di John Fulljames e di Hofesh Shechter, le bellissime luci dorate di Lee Curren (riprese da Andrea Giretti), che “bucano” il soffitto come raggi di sole e le scene di Conor Murphy, suoi anche i costumi, contraddistinte da tinte calde e colori sfumati.
Juan Diego Florez è un ottimo Orphée, tormentato il giusto e senza mai abdicare alla fierezza tipica del poeta. L’elegante fraseggio e il colore ancora intatto dopo gli anni di carriera consentono di tratteggiare un personaggio davvero credibile. Di Christiane Karg, Euridice, ho apprezzato quel nobile distacco e quella leggerezza tesa a rappresentare chi, già morto, viene richiesto di rivivere in funzione dell’autoaffermazione di qualcun altro. Analogamente appropriata Fatma Said, nel ruolo di Amour, dotata vocalità piena e una buona efficacia scenica.
Demoni, Ombre, Spiriti Beati ed Eroi trovano nel Coro diretto da Bruno Casoni un interprete ideale. Come sempre, impeccabile per intonazione e intenzione musicale. Le coreografie di Hofesh Shechter richiamano un’umanità ancestrale che si contrae e si dilata in una danza rituale e tribale, atecnica, in un gioco di movimenti compatto e di grande efficacia espressiva.
A fine spettacolo il pubblico accoglie con vivo calore tutti gli interpreti con durature ovazioni per Florez e caldi applausi per il direttore.
Pietro Gandetto
(Milano, 11 marzo 2018)
La locandina
Direttore | Michele Mariotti |
Regia | Hofesh Shechter e John Fulljames |
Coreografia | Hofesh Shechter |
Scene e costumi | Conor Murphy |
Luci | Lee Curran |
riprese da Andrea Giretti | |
Orphée | Juan Diego Flórez |
Euridice | Christiane Karg |
L’Amour | Fatma Said |
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala | |
Maestro del Coro | Bruno Casoni |
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